Volendoci sentire sempre più legittimati a sedere a tavoli di importanza superiore, noi grafici (categoria alla quale sono sempre fiero di appartenere) abbiamo preso a definirci visual designer, brand designer, brand consultant… Il nostro però resta un ‘mestiere’ con un forte radicamento nella propria matrice artigianale. Pertanto resta centrale l’utilizzo della mano come strumento tecnico avanzato e capace, attraverso le sue articolazioni complesse, di trasformare un’idea in un segno.

La mano è per il designer la prima interfaccia fondamentale ad esternare idee e intuizioni che poi vengono ‘registrate’ vergando un foglio con della grafite o una tavoletta grafica con un sensore. La mano è lo strumento più sofisticato, il primo che adoperiamo nel produrre la sintesi dell’idea.

Prima ancora di tradurre i concetti in segni, le nostre mani ci aiutano a rafforzare il pensiero e l’elaborazione cognitiva mediante il nostro gesticolare. Nell’esprimere idee, concetti, strategie non possiamo esimerci dall’utilizzare le mani. L’uso dei gesti attiva neurotrasmettitori fondamentali per la memoria. Non a caso noi italiani abbiamo sviluppato assieme alla nostra grande capacità retorica, un repertorio di gesti caratterizzanti (quasi fosse un nostro brand) che già Munari aveva raccolto nel suo celebre Supplemento al dizionario italiano.

Gianfranco

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Dialogo vuol dire incontro
Per instaurare un rapporto costruttivo tra agenzia e cliente è fondamentale che ci sia disponibilità all’incontro tra le persone. Dalla mia esperienza ho imparato che i progetti di maggior successo sono quelli in cui si intavola una dinamica personale aperta e sincera. È necessario che le persone coinvolte nel progetto abbiano voglia di rendere questo dialogo vivo e costruttivo.

Dialogo vuol dire ascolto
Per far sì che il dialogo porti a un risultato, bisogna aprire la mente, rinunciare ai pregiudizi e saper ascoltare. Porsi in una posizione di ascolto significa essere disponibili a collocarsi sullo stesso piano dell’interlocutore, creare empatia, fare proprie le necessità dell’altra parte. Ascoltando con attenzione si possono cogliere i bisogni reali che sono alla base di ogni richiesta.

Dialogo vuol dire cambiare idea
Dopo un primo incontro capita spesso di costruirsi un’idea immediata del cliente, del brand, del problema. Altrettanto spesso il cliente ha già un’idea chiara del tipo di risposta che si aspetterebbe. Il dialogo continuo che nasce dalla dinamica del progetto ci dà l’opportunità di cambiare idea, di arrivare a soluzioni inaspettate che nascono dall’utilizzo del pensiero laterale, da un punto di osservazione altro.

Ogni progetto è un dialogo, un incontro, un percorso il cui punto di arrivo non è mai scontato. È questo che rende affascinante ogni progetto di design, dalla definizione di una proposta di valore al design di un oggetto.

Gianfranco

Per essere originali bisogna essere in grado di seguire la propria strada, andare contro le convenzioni e rompere, a volte, qualche regola di comportamento. In questo modo si può ottenere qualcosa di insolito, imprevisto, accattivante e molto probabilmente memorabile.

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Si può trattare di idee completamente fuori dal coro, come è stato per MP3, lo scooter a 3 ruote lanciato da Piaggio qualche anno fa, che sicuramente può apparire strano ma che ha aperto una nuova categoria di mercato. Un caso di branding altrettanto dirompente è stata l’identità delle olimpiadi di Londra 2012, che nessuno dimenticherà mai per la sua forza e impareggiabile diversità (chi si ricorda, invece, il logo delle olimpiadi di Pechino del 2008?).

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Si può trattare di codici stilistici fuori dal coro, come è stato per gli aspirapolvere Dyson, che sembrano astronavi arrivate da un’altra epoca, o come è per la Citroen Cactus, che sicuramente rompe qualche convenzione di car design.

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L’originalità passa anche attraverso dettagli che, grazie a piccoli interventi, riescono a creare qualcosa di decisamente insolito e ricco di personalità. Che si tratti di una lettera rovesciata, di una iniziale deformata o di un allineamento sbagliato, con il giusto controllo il risultato può essere indimenticabile.

Giacomo Cesana
Creative Director

Secondo dati Fao a livello mondiale si sprecano 1,3 milioni di tonnellate di alimenti, circa un terzo della produzione totale di cibo destinato al consumo umano. In Europa il dato si declina in 180 chili di cibo sprecato pro-capite (108 in Italia).

Il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione e un documento programmatico sul cibo sostenibile, che vincola gli Stati a dimezzare lo spreco commestibile entro il 2020.

Lo spreco alimentare comincia a venire arginato, ma solo sul fronte domestico. Quattro consumatori su 5 non gettano più via gli alimenti scaduti senza prima guardarli meglio e assaggiarli per vedere se il consiglio di buttarli entro una certa data è valido.

La risposta degli chef

In uno spazio ricavato dal Teatro Greco nell’omonimo quartiere alla periferia di Milano, è stato allestito il Refettorio Ambrosiano, una mensa per i poveri da 96 posti dove un team di 40 cuochi guidato da Massimo Bottura cucina il cibo di riciclo di Expo 2015.

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La risposta di ASDA

ASDA ha lanciato una campagna per vendere tramite la propria rete di supermercati ortaggi e frutta ‘deformi’, prodotti che in precedenza sarebbero stati scartati. Beautiful on the Inside è il nome dell’iniziativa che mira a rendere i consumatori UK maggiormente coscienti rispetto al tema del cibo sprecato.

Moltissimo cibo viene sprecato prima ancora di raggiungere gli scaffali della vendita. Una ricerca svolta per Think.Eat.Save ha rivelato che oltre il 40% dell’ortofrutta prodotta in Kenya (come ad esempio i fagioli verdi coltivati per l’export) va distrutta perché semplicemente non aderente agli alti standard cosmetici della distribuzione europea.

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La risposta di Intermarché

In Francia, Intermarché ha lanciato un’iniziativa simile attraverso i suoi 1.800 punti vendita. ‘Inglorious Fruits & Vegetables’celebra l’aspetto grottesco e ridicolo di frutti e ortaggi ripresi dal famoso fotografo Patrice de Villiers. La campagna spiega che ogni frutto fa bene ed è saporito tanto quanto la sua versione ‘regolare’, ma costa il 30% in meno. Durante i primi due giorni di campagna, sono state vendute 1,2 tonnellate di frutta e verdura ‘Inglorious’ per negozio.

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La risposta di Sainsbury's

Sainsbury’s ha lanciato un sito per aiutare i consumatori a riciclare il cibo avanzato, grazie alla scoperta e alla condivisione di ricette. I consumatori possono inserire un elenco dettagliato degli ingredienti a disposizione nella propria cucina, ricevendo in risposta le ricette suggerite. Inoltre il sito aiuta a calcolare quanto cibo si è recuperato, sia in termini di peso che di valore monetario.

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Love food hate waste

Love Food Hate Waste è un programma lanciato da WRAP (Waste & Resource Action Programme) una Organizzazione Governativa Britannica. Collabora con diversi retailer nel Regno Unito. È interessante vedere come Tesco e The Cooperative (quinto retailer in UK) abbiano inserito sui propri sacchetti di plastica destinati al confezionamento di frutta e verdura dei consigli di conservazione che rimandano al sito LFHW.

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Gianfranco Siano

CEO, Partner

Stile casual

Una delle regole a cui ci si attiene per la progettazione di un qualsiasi strumento che deve comunicare un messaggio – che si tratti di un manifesto, della confezione di un prodotto, di una rivista – è che le informazioni devono essere chiare, leggibili e devono seguire una gerarchia. E questa regola si applica all’insieme di tutti gli elementi della composizione: marchi, testo, immagini. Si crea un ordine di lettura che parte dall’elemento principale e via via porta fino a quelli secondari. Ma come tutte le regole ci sono le eccezioni: prodotti che si presentano con un aspetto disordinato, in cui gli elementi sembrano essere disposti in maniera casuale e la confusione sembra prevalere sull’ordine. Si potrebbe pensare che un approccio del genere sia possibile sono per prodotti e mercati di nicchia o avanguardia – pensiamo alle birre artigianali o ai brand della moda ultra contemporanei – ma ci sono esempi che possiamo trovare nei supermercati sotto casa.

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Spostandoci nel mondo del retail è notevole il caso della catena inglese di hamburgerie Byron, nata con un approccio all’identità visiva assolutamente casual: ciascuno dei suoi primi 35 locali aveva un logo diverso, ma anche strumenti e materiali di comunicazione completamente differenti. L’unica costante erano il nome e gli hamburger. Nata nel 2007, Byron è cresciuta con questa identità casuale ed è stata venduta nel 2013 per la cifra di 100 milioni di sterline. Niente male per una brand “senza un vero logo”.

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Difetti come punti di forza

Vi è mai capitato di dire a qualcuno: «Non fare caso a come sono vestito, ho indossato la prima cosa che ho trovato»? A me sì, e ho la stessa impressione ogni volta che vedo una bottiglia di Angostura, la cui etichetta è evidentemente della misura sbagliata. Ma questo difetto ne ha fatto l’elemento più memorabile della sua identità.

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Quando spontaneo fa rima con iconico

Ci sono poi tutta una serie di brand la cui identità non è cambiata nel tempo, superando le mode e le generazioni, diventando così fortemente iconica. Il fascino che provo di fronte a brand del genere non è solo dovuto al valore storico della loro espressione visiva, quanto anche al fatto che spesso sono la testimonianza di un approccio genuino e naïf al branding e al marketing. Se qualcuno infatti mi chiedesse cosa ne penso di una etichetta in cui il logotipo è ripetuto due volte, per di più in due forme diverse, in cui le informazioni legali sono sul fronte e si sovrappongono al logotipo e tutta la composizione è poco leggibile, io risponderei che è qualcosa di insensato. Senza accorgermi che mi sta descrivendo l’etichetta dell’acqua S.Pellegrino. E che direi se qualcuno mi dicesse che vuole usare le quattro facce di un astuccio per riprodurre esattamente il prodotto in esso contenuto? Gli direi che sta perdendo un’opportunità, senza pensare che dentro questa stranezza ci può essere invece l’opportunità di diventare iconici, come è successo, nel suo piccolo, per la pasta Balena. E quando penso che sui prodotti iconici di Wrigley’s, l’azienda che ha il 35% del mercato mondiale delle gomme da masticare, il gusto “spearmint” è rappresentato da una lancia (spear significa appunto lancia) e il gusto “doublemint” da una freccia a due punte, non posso che concludere che essere naïf può rivelarsi un grande valore.

Giacomo Cesana
Creative Director

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Così, dopo decenni di distribuzione nel canale Farmacia, l’offerta “senza” ha invaso gli scaffali della GDO diventando mainstream. Non è più solo una partita da specialisti: anche le insegne investono sul segmento lanciando linee a marchio privato.

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La prima sfida che questi prodotti devono affrontare è quella di virare in positivo gli aspetti più critici della scelta. La necessità si tramuta in opportunità a partire dal nome: l’avverbio “senza” ha ormai ceduto il posto al concetto positivo di “libertà”. “Free from” è diventato il codice universale della categoria.

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Oltre al nome, il linguaggio visivo tende a farsi più allegro e colorato, sostenendo così il prodotto quale autentica alternativa salutare al prodotto standard.

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La seconda barriera è il gusto: se tolgo qualcosa, il prodotto sarà meno buono. Le tecnologie produttive hanno ormai raggiunto livelli tali da eguagliare l’offerta standard in termini di qualità organolettica. I visual tendono così a comunicare il massimo del gusto per bilanciare la promessa salutista con l’appetitosità del prodotto.

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Una delle caratteristiche dei prodotti per alimentazione controllata è l’estensione della promessa a diverse categorie merceologiche. In questi casi il pack system resta invariato attraverso gli scaffali e domina sulle logiche di categoria.

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Poiché la promessa è innanzitutto la soluzione del problema alimentare, il colore può essere incoerente con i codici delle singole categorie in cui la linea si estende. Il colore è la leva che aiuta a emergere e rendere sempre riconoscibile l’offerta, nello stesso scaffale quando affianca l’offerta standard oppure in scaffali diversi.

Cristiano Mauri
Client Director

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Qual è il telaio ideale? È una delle prime domande da porsi prima dell’acquisto di una nuova bici. Si è iniziato a sperimentare sui telai delle biciclette negli anni ’80 e dopo il 2000 hanno conosciuto una grossa diffusione la fibra di carbonio e il titanio, come materiali per costruzione. Ma quando ha iniziato a lavorare Lino Messori, con il padre, i telai erano in acciaio. Punto. u0022Una volta si pedalava e basta. Ora c’è bisogno che ci sia il titanio, il carbonio, le leghe leggere… una bicicletta sempre più leggera, sempre più complicata.u0022 Una vita, la sua, dedicata al lavoro che era anche la sua grande passione. Ha sempre lavorato, anche negli ultimi anni. Martellava, faceva ancora qualche cosetta, ma per hobby non per soldi ci tiene a precisare.

Il cuore lo sentiamo mentre racconta la sua vita. Le sue bicilette sono perfettissime, quasi tutte rosse perché create a mano da un vero ferrarista. Era il suo colore, il rosso. E i telai erano tutti cromati, perché l’obiettivo era fornire al cliente un telaio che non si ossidasse. Ha costruito 150 bici nella sua carriera, speciali, di tutti i tipi: con la pompa inserita nel telaio, con la ruota piccola davanti grande dietro, forcelle, tutta u0022roba stranau0022, creata da lui.

Chi lo conosceva, dice di lui: u0022tutto quello che ha fatto nella vita era poco ordinariou0022. Come quella volta che si è inventato il telaio bucato, perché non andava nessuno in negozio. Voleva dimostrare di essere capace di fare le biciclette. E da allora sono andati tutti per vedere le sue bici.

2015 06 11 MwH Lino Messori forata

Scopri la storia di Lino Messori e del suo lavoro Made with Heart nel videoritratto di Luca Campanale.

Negli anni ci siamo abituati alla categoria Shanzai nel mondo della moda, dell’abbigliamento e della tecnologia, con i prodotti IVIKE anziché NIKE, o con la Polystation al posto della Playstation.

Mentre nel mondo del Fast Moving, e specialmente delle Private Label, qualche anno fa era prassi comune imitare i codici del Brand leader di categoria, oggi stiamo assistendo alla nascita di molti prodotti che potrebbero a tutti gli effetti essere annoverati nella categoria degli Shanzai.

Se non fossero prodotti e distribuiti in Italia…

Gianfranco Siano, CEO – Partner

CBA insight Shanzai Dove
CBA insight Shanzai Felce Azzurra
CBA insight Shanzai Coccolino
CBA insight Shanzai Branca
CBA insight Shanzai Aperol
CBA insight Shanzai Muller

Sono passati 25 anni: le parole non hanno perso importanza e la sua reazione è quantomai attuale. È sempre più difficile, infatti, leggere un articolo o ascoltare un servizio televisivo che non contenga termini stranieri, inglesismi e storpiature di una qualche lingua straniera. Chissà cosa succederebbe se Michele Apicella partecipasse a un qualsiasi meeting di briefing tra il project manager di un’agenzia di branding e il marketing manager di una azienda? E chissà quanti schiaffi mi darebbe per aver scritto questa frase?

Il branding e il marketing nascono nel mondo anglosassone, perciò è normale che molti dei termini utilizzati da queste due discipline siano inglesi. I loro stessi nomi sono stati adottati nella nostra lingua senza traduzione. Pensare di tradurre marketing in “strategia dei mercati” o branding con “progettazione della marca” sarebbe infatti da una parte strano, dall’altra riduttivo.

Non bisogna scandalizzarsi per questo, ma forse Michele Apicella – e non solo lui – avrebbe qualcosa da obiettare se sentisse che un nuovo progetto di brand stretching è passato dalla fase di briefing, attraverso vari brainstorming, a una serie di refinement e di debriefing e successivamente ad un test in cui un panel di consumatori ha validato la big idea del marketing e ora deve essere presentato con dei meeting cascade per allineare tutti sugli output rispettando le deadline. All’inizio servirebbe un vocabolario, poi ci si abitua.

Bisogna comunque considerare che le lingue si evolvono, anche per contaminazione, e che i neologismi nascono continuamente, in ogni parte del mondo. Senza dimenticare però che parlare correttamente e contemporaneamente più di una lingua, gestendo fili di pensiero diversi e potendo spendere la ricchezza di due vocabolari, è sicuramente segno di maturità e intelligenza. Molti termini di uso comune nella lingua italiana sono stati accolti da altre lingue, e nessuno li trova strani. Sport, computer, toast, autobus, brioche: come li chiameremmo in italiano? Tuttavia un conto sono i neologismi e le lingue straniere, un altro conto è l’itanglese. Tornando a Michele Apicella, chissà come reagirebbe se sentisse i verbi endorsare (dall’inglese “to endorse”, in italiano si dice “supportare”), strecciare (to stretch, estendere), scrinare (to screen, selezionare), draivare (to drive, guidare), mecciare (to match, abbinare), ciallengiare (to challenge, sfidare). O gli aggettivi, adocchizzato (fatto ad hoc), gastronomizzato (preparato come in gastronomia), editato (intendendo “modificato”), impattante (di impatto). Io li ho sentiti tutti, ben più di una volta, e ci sorrido sopra.

L’italiano, sebbene non abbia coniato i termini del marketing e del branding, è la quarta lingua più studiata al mondo e offre un vocabolario sufficientemente ampio dentro cui trovare l’alternativa giusta per molti termini stranieri abusati. Senza apparire nostalgici o conservatori, e senza prendere a schiaffi nessuno, ma coscienti che “le parole possono essere paragonate ai raggi X; se si usano a dovere, attraversano ogni cosa” – e citando Il mondo nuovo di Aldous Huxley posso chiudere facendo la figura della persona colta.

Giacomo Cesana, Creative Director

Kevin: quello era il nome giusto. Breve, squillante, acuto, assertivo: garanzia di carisma e distinzione. Così Carlo Verdone in Viaggi di Nozze persuadeva Claudia Gerini nella scelta del nome per il futuro figlio. Per restare in ambito ‘pietre miliari’, nei Mitici (colpo gobbo a Milano) Ricky Memphis rassicurava Claudio Amendola sulla candidatura della giovanissima Monica Bellucci per la banda criminale che si stava formando con una semplice considerazione: ti dico una cosa sola, si chiama Deborah, con l’acca.

Se nella cultura popolare il nome racchiude in sé il destino di chi lo porta, nel branding il nome determina spesso il destino di chi lo sceglie. Un nome sbagliato può compromettere il potenziale successo di un prodotto o di un servizio, vanificando gli investimenti dispiegati nello sviluppo e nel lancio. E, proprio come il destino, anche il nome è difficile da cambiare. Ecco perché il naming si sta sempre più affermando come una delle discipline più rilevanti del branding.

Il naming non è una scienza esatta: non ci sono processi di creazione migliori di altri o formule per calcolare il ritorno economico di un nome efficace. Ma esistono indici che un esperto sa valutare: ad esempio la pronunciabilità, la memorabilità o l’assenza di associazioni negative per il target cui ci si rivolge. È noto che nel 1922 Luisa Spagnoli, geniale co-fondatrice di Perugina, avesse deciso di nominare le sue nuove praline Cazzotti e fu Giovanni Buitoni a convincerla che il nome Baci sarebbe stato più appropriato. Tornando a Deborah, il successo del brand di cosmesi nato negli anni Sessanta dimostra che a dispetto dell’acca il nome funzionava benissimo per la categoria e il target cui era destinato.

La storia di Nuva

Il naming può essere frutto di pure intuizioni creative ma il più delle volte è risultato di metodo e esperienza. Quando un produttore di frutta del Sud si è rivolto a CBA per rinfrescare l’identità del proprio prodotto, aveva come prima necessità la sostituzione del nome precedente nato da un’intuizione ma non adeguato ai mercati internazionali. Il processo di creazione è iniziato dal racconto appassionato dell’imprenditore sulla propria terra e le proprie radici. Questo ha offerto lo spunto per individuare le aree semantiche di ricerca: l’uva, il Mediterraneo, l’allegria della frutta. Aree coerenti al valore dell’italianità, rilevante per il mercato internazionale, ma credibili anche per gli italiani. Ogni area è stata indagata dal punto di vista lessicale, producendo centinaia di radici e fonemi poi combinati in parole. L’idea era racchiudere in un suono la semplicità e la dolcezza del frutto che veniva offerto al consumatore così come era stato creato dalla Natura.

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Uno dei principali problemi del naming è la disponibilità giuridica. L’anteriorità è materia da legali esperti ma il primo screening è imperativo per evitare che il cliente si innamori di un nome chiaramente inutilizzabile. Con 3 milioni di marchi registrati e 54.600 domande solo nel 2014 (quasi 150 al giorno!), il Registro dei Marchi è il nemico numero uno di ogni namer. In questo screening “cade” di norma gran parte dei nomi creati. Così i nomi sono stati filtrati all’anteriorità. In 21 sono sopravvissuti: quasi tutti nomi di fantasia slegati da termini di significato compiuto. Alla fine la scelta si è basata soprattutto sulla semplicità: Nuva. Gli inglesi avrebbero colto il richiamo al termine “new” e avrebbero apprezzato la sonorità italiana; gli italiani avrebbero ricordato facilmente un nome così chiaro e sincero, che aggiungeva al frutto una sola lettera. La reazione dei mercati è stata molto positiva e ha risolto i problemi riscontrati con il nome precedente. Ogni nome ha il suo destinatario ma i problemi sono comuni: distintività, comprensibilità, utilizzabilità commerciale. I nomi che superano queste prove sono potenziali ma questo non basta a determinarne il successo. Il contesto, il canale, la qualità del prodotto, la coerenza della comunicazione e altri ingredienti sono altrettanto determinanti. Un nome giusto non può risolvere tutto. Di certo, un nome sbagliato non aiuta.

Cristiano Mauri, Direttore Creativo

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