Questo è il terzo articolo che raccoglie le riflessioni e gli stimoli generati dal nostro playbook Design for Future. Dopo esserci interrogati su come rifondare la relazione con i consumatori e rispondere i nuovi bisogni, con questo articolo conclusivo proviamo ad andare oltre la pandemia per tentare di scorgere cosa verrà dopo e soprattutto cosa rimane.

1. Rinnovare una proposta di valore per rispondere alle nuove sfide del mercato

I nuovi bisogni scaturiti dall’emergenza sanitaria hanno stimolato le aziende a rinnovare la propria offerta in pochissimo tempo, con fenomeni di brand extension in settori prima esclusi dalla propria strategia. Per esempio nel mondo della ristorazione, abbiamo visto l’affermarsi del food delivery, spesso più come risposta emergenziale che come scelta strategica. Fare questa operazione presenta tuttavia dei rischi perché la coerenza con i valori del brand deve essere rispettata per non inficiare credibilità e reputazione. In questo senso Langosteria è uno dei primi esempi di brand di fine dining che ha deciso di portare a casa dei propri affezionati clienti non solo il cibo ma l’intera esperienza Langosteria fatta di ritmo, eccellenza ed italianità contemporanea.

Come Cba abbiamo sviluppato l’identità visiva di Langosteria a casa cercando di far vivere su tutti i touchpoint l’essenza della marca. In questo progetto infatti nulla è stato lasciato al caso: partendo dalla vestizione dei furgoni climatizzati e le divise del personale, alle shopper, il cestino per il pane e la carta per alimenti. Portare l’esperienza Langosteria a casa significa anche optare per una scelta che è allo stesso tempo sostenibile e che esalta la qualità della cucina espressa, come i vasetti in vetro personalizzati con pendagli che richiamano le diverse linee di servizio. Infine il ritmo, che scandisce il lavoro della brigata degli chef in Langosteria è accessibile anche a casa, nella forma di una playlist Spotify creata ad hoc.

2. Immaginare nuovi scenari di vendita e fruizione del servizio

Quali nuovi bisogni emergeranno per il consumatore nei nuovi scenari? Quali nuovi touchpoint sarà necessario attivare per fare la differenza online e offline?

Quando parliamo di nuovi canali immaginiamo subito quelli digitali, soprattutto dopo il lock-down che ha visto le vendite online impennarsi, così come l’affermarsi del food delivery. La complessità del mondo in cui viviamo ci ha però insegnato che i cambiamenti non sono mai unidirezionali. Infatti c’è chi sta accelerando proprio sul processo inverso, nascendo come piattaforma online di food delivery e puntando invece proprio ora sulla presenza fisica nei quartieri centrali delle metropoli.

Parliamo di Deliveroo che sta sviluppando progetti di retail per il pick-up degli ordini online, come a Wanchai, Hong Kong. Si tratta di un upgrade di Deliveroo Editions che con le sue ghost-kitchen metteva a disposizione cucine professionali a chef e brand di food che lavorano con il delivery solo in certe aree delle città.

Questo progetto che vede il leader mondiale della delivery investire nel retail fisico, prevede sia la possibilità di ordinare dall’app che di ordinare dai tablet in loco ed assistere poi, attraverso un set di VR, alla preparazione del proprio piatto live. Una possibilità questa, che prova a ridurre i problemi legati alla percezione di insicurezza igienica emersa durante l’emergenza Covid19. Quello che è certo è che si tratta di un’operazione che offre una nuova opportunità al brand per stringere la relazione con i propri utenti.

3. Ripensare al business model, per proiettare il brand nello scenario futuro

Il cambiamento climatico ed il consumo di risorse sono tra le sfide più grandi che affronteremo nei prossimi decenni. Durante la pandemia la consapevolezza ecologica dei consumatori si è accentuata: secondo una ricerca di marzo 2020 del Pew Research Center il 60% degli americani considera il cambiamento climatico una delle maggiori minacce per l’uomo.

Gli schemi adottati dai brand per fare fronte a questa necessità sono diversi ma la maggior parte è focalizzata sul prodotto e la sua produzione. Essere sostenibili però è possibile anche creando nuovi business model che fanno riferimento ai principi dell’economia circolare. In questo senso è interessante l’invenzione nel mondo della delivery del “packaging as-a-service” della start-up francese Living Packets. The Box è un contenitore smart per le spedizioni, riutilizzabile più di 1000 volte.

Oltre ad eliminare cartoni, polistirolo ed etichette (grazie ad un minischermo), permette un’esperienza di delivery mai sperimentata: attraverso diversi sensori rileva gli urti, le infrazioni/aperture della scatola, la temperatura esterna e risolve molti pain-point della logistica last-mile, grazie al tracking gps.

L’elemento interessante è però il business model perchè The Box è un packaging as-a-service, dove gli e-tailers pagano non per l’acquisto ma per l’utilizzo di questa box intelligente ed ecologica, i vettori guadagnano dal loro trasporto ed i consumatori pagano per servizi extra.

Mai come oggi è quindi necessario mantenere alto lo spirito d’innovazione, interrogandosi su come il proprio brand possa davvero essere rilevante, su quali opportunità si aprono in un mondo che cambia velocemente e dove gli scenari futuri appaiono incerti. Cominciare dalle giuste domande è il punto di partenza.

Francesco Saviola, Strategic Designer at CBA

Dopo aver approfondito la domanda su come rifondare la relazione con i consumatori, questo secondo articolo prosegue la serie dedicata al playbook Design for Future: la guida per facilitare la riconnessione tra brand, mercato e consumatori.

Il cambiamento di stili di vita a cui stiamo assistendo, improvviso e radicale quanto la pandemia che l’ha scatenato, ha rimescolato priorità e bisogni, facendo emergere nuove abitudini ed esigenze. Molti dei bisogni in risposta ai quali molti brand erano nati, oggi non ci sono più o non sono più così determinanti. Ciascun individuo può essere più o meno consapevole di quanto le proprie priorità e bisogni siano cambiati. Ciascun brand deve osservare e riflettere su questi cambiamenti, sul bisogno originario che la propria offerta soddisfa e sui bisogni emersi a cui potrebbe dare risposta.

Per sopravvivere i brand non devono dare per scontato il fatto che il proprio prodotto o servizio possa essere la risposta ad una domanda che ancora esiste o che tornerà ad esistere, ma saper cogliere i segnali di nuovi bisogni. Segnali che emergono osservando da vicino – per quanto possibile – i consumatori e riflettendo sulle proprie risorse, in modo da capire quale di queste e in che modalità possa essere la risposta attesa. Questa duplice indagine, su consumatori e brand, attraversa 3 livelli di profondità:

  • Indagare i nuovi momenti di consumo, osservando le nuove abitudini ed esigenze sviluppate dai propri consumatori e da tutte le persone raggiungibili attraverso i propri canali
  • Indagare i nuovi canali utilizzati dai consumatori, i propri e i potenziali, osservando dove le persone cercano soluzioni ai diversi bisogni
  • Indagare le potenzialità dei nuovi canali, osservando in particolare il mondo digitale, le difficoltà che le persone incontrano e le opportunità offerte dalle ultime tecnologie

1. Quali saranno i nuovi momenti di consumo dei consumatori?

Papier, cartoleria online inglese, ha riscoperto nei propri clienti e in un pubblico ancora più allargato il bisogno, durante il lockdown, di comunicare affetto ai propri cari. Una riscoperta del proprio ruolo ma soprattutto dell’immensa opportunità di business, tanto che Papier è tra le poche aziende che in questo periodo hanno triplicato il proprio guadagno. Taymoor Atighetchi, CEO e fondatore, ha riconosciuto anche in sé stesso il bisogno di mandare agli affetti lontani un segno che dica loro ‘ti penso’ più concreto e tangibile di un messaggio al cellulare. Per questo si è messo subito al lavoro – da remoto – per ampliare l’offerta di cartoline illustrate aggiungendo una nuova categoria, ‘Love from afar’.

Un numero sempre maggiore di persone si è riscoperto amante non solo di cartoline illustrate, ma anche di lettere scritte a mano e di diari ‘di quarantena’. La strategia che Papier intende seguire è cavalcare questi nuovi momenti di consumo che potranno continuare in futuro, così da essere pronti con un portfolio prodotti sempre più diversificato a prova non solo di pandemia ma di molte sfide future. Come Papier, ciascun brand deve chiedersi: quali prodotti e servizi posso immaginare per avere un ruolo in questi nuovi momenti?Così da diversificare la propria offerta per rispondere alle occasioni di consumo emerse oggi ma che potrebbero continuare a ripetersi anche in futuro.

2. Quali canali di vendita sono raggiungibili dal tuo consumatore?

Leon, catena di healthy fast food, è rimasta in contatto con i propri clienti non solo attraverso ordinazioni online e delivery, ma trasformando i propri ristoranti in minimarket. Con le persone costrette a casa, il bisogno di fast food, per quanto sano, è calato. A crescere invece è stata la paura che ha scatenato la corsa all’approvvigionamento e la conseguente scomparsa di molti prodotti dai supermercati.

Leon si è reinventato un format ibrido tra ristorante e minimarket, restando coerente con la propria identità. Molti altri brand come lui si sono chiesti: in che modo ci si può appropriare dei codici di nuovi canali di vendita riadattandoli al proprio concept? In questo modo si crea ibridazione tra diversi canali dando vita non solo a soluzioni temporanee per tamponare l’emergenza, ma a format innovativi che potranno continuare ad esistere in futuro.

3. Qual è il potenziale sul canale digitale?

Ideal, gioielleria cinese, come tutti i negozi è stata costretta a chiudere le porte dell’ampio e lussuoso spazio in cui accoglieva e consigliava i propri clienti. L’e-commerce non avrebbe mai potuto sopperire al bisogno di una consulenza tanto umana ed esperta. In una notte il negozio si è trasformato nel palcoscenico di dirette streaming e video-chiamate tra staff e clienti attraverso WeChat.

Ideal non si è limitata a portare online i propri gioielli ma l’intera esperienza di consulenza e la relazione con lo staff. Ogni brand si dovrebbe chiedere: come posso umanizzare l’esperienza digitale per avvicinarla al consumatore? Molto hanno già trovato ipotesi di risposta attraverso l’utilizzo di svariati strumenti che spaziano da siti e-commerce, a social media e persino a piattaforme di giochi online.

Papier, Leon e Ideal sono 3 brand che come tanti altri in questo periodo hanno fatto sembrare semplice trasformarsi, nel giro di una notte, fino a cambiare modello di business. La loro trasformazione sembra semplice perché è data dal fatto che hanno semplicemente continuato a fare ciò che un brand deve fare, con o senza pandemia in corso: ascoltare i bisogni dei propri consumatori e rispondere come solo il proprio brand può e sa fare.

Marta Fontana, Strategic Designer at CBA

Abbiamo progettato il Playbook Design for Future per essere d’aiuto a imprenditori e manager che in questo periodo così complesso e delicato non si perdono d’animo e vogliono guardare a questo momento come ad un’opportunità.

In questo articolo svisceriamo le domande della prima fase del Playbook, relativa al consolidamento della relazione con i consumatori.

Siamo tutti consapevoli che il periodo che stiamo vivendo cambierà molte cose in ognuno di noi e nella realtà che viviamo, come abitudini, consumi e aspettative. Nessuno è in grado di prevedere cosa succederà nei prossimi mesi, ma questa incertezza collettiva ci può far riflettere su ciò di cui abbiamo bisogno adesso: condivisione, empatia e punti di riferimento certi, anche provenienti dai brand che seguiamo abitualmente e amiamo di più.

Questo momento potrebbe rappresentare un’opportunità per le imprese per reimmaginare il rapporto con i propri consumatori, per proporre idee diverse e passare ad un approccio e una comunicazione che esprima i valori più profondi che muovono i brand ogni giorno, come la cura e l’attenzione per i propri clienti.

1. Come sono cambiati i bisogni del tuo consumatore?

Quali messaggi sono oggi rilevanti per rassicurare/intrattenere/educare i tuoi consumatori?

Esiste una nuova normalità con cui tutti noi dobbiamo fare i conti. Seppure temporanea, si tratta di una normalità tutta da costruire e i brand devono sentirsi coinvolti in prima linea: assieme ai toni rassicuranti delle comunicazioni, le persone sembrano aspettarsi qualcosa in più dai brand che amano, e cioè che siano in grado di spiegare come saranno utili nella nuova quotidianità.

L’obbligo di restare a casa ha già predisposto le basi per un nuovo stile di vita in cui e-learning, servizi di streaming, di delivery e app di video call la stanno facendo da padrone e dove i canali digitali rappresentano una delle poche vie di fuga che i consumatori possono permettersi oggi. Il compito dei brand in questo contesto in continua evoluzione sta diventando quello di supportare i propri consumatori, spesso disorientati, confusi, spaventati e incerti del proprio futuro, costretti a dover rinunciare alle proprie abitudini e alla propria routine, per costruirne una nuova e casalinga. Non basta infatti sommergerli di proposte e occasioni di consumo raggiungibili dal proprio divano, ma serve soprattutto proporsi come una guida disposta ad accettare sfide e cambiamenti, in grado di reinventarsi continuamente, facendo percepire la propria vicinanza.

La campagna #RipartiamoDaCasa di Ikea ne rappresenta un buon esempio, in quanto invita a riscoprire la propria casa per organizzare al meglio non solo smart working e pause relax, ma aiuta i consumatori ad adottare in modo positivo il cambiamento. Una nuova sezione dedicata sul sito e sui social inoltre regala consigli su come prendersi cura e rendere unica la propria casa in questo periodo, perché un’atmosfera positiva è la chiave per ripartire con buonumore.

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Reinventarsi continuamente vuol dire interrogarsi ogni giorno su cosa stia succedendo là fuori, proprio perchè le emozioni, ma anche le aspettative dei consumatori, sono in continua evoluzione ad altissima velocità. I brand devono riuscire a tenere il passo, parlare in tempo reale e confrontarsi con il contesto mutevole in cui ci troviamo. Per questo brand come Glossier, hanno fatto tesoro delle esperienze passate e hanno adottato ancora una volta un approccio diretto e di scambio con i propri consumatori, chiedendo direttamente a loro la tipologia di contenuti che si aspettano di trovare. Far sentire la propria vicinanza partendo dall’ascolto e dall’interazione diretta fa sì che i consumatori si sentano compresi e messi al centro delle azioni del brand.

Insight Design for future Glossier

2. Quali sono i tuoi valori guida?

Quali sono le prove tangibili dei tuoi valori? Quali di queste possono essere di aiuto ai consumatori oggi?

Diventare guida, ispirazione e modello di riferimento per i propri consumatori dà la possibilità di creare relazioni durature e stabili, perché fondate su valori condivisi, sulla trasparenza ma anche sulla concretezza delle azioni, andando oltre le campagne di comunicazione. Per questo stanno avendo sempre più riscontro positivo i brand che riescono a ripartire dai propri valori e dall’impatto che possono avere nella vita dei consumatori. Brand che si mettono in gioco per essere d’aiuto in momenti difficili come quelli che stiamo vivendo.

Uno dei bisogni che sta emergendo in questo periodo è la necessità di navigare tra le informazioni disponibili. Veniamo bombardati ogni giorno da molteplici input e spesso è difficile riuscire a fare chiarezza o comprendere la veridicità di una notizia. Ci sono brand, come Boots, che stanno provando a fare la propria parte in modo concreto contro questainfodemia. Partendo infatti dai valori che muovono il brand, ovvero cura e protezione per consentire ai propri consumatori di condurre una vita sana e felice, il brand ha sviluppato una nuova sezione sul proprio blog, in cui risponde, tramite video tutorial, a tutte le domande che possono emergere in questo periodo, fornendo informazioni semplici, chiare e inequivocabili, ma soprattutto confermando il proprio ruolo di esperto e punto di riferimento, anche a distanza.

Insight Design for future Boots

Tra gli altri che hanno cercato di far chiarezza nel mondo delle informazioni relative alla pandemia, troviamo anche Gucci, che ha affidato temporaneamente i propri canali social alla World Health Organization come esperti in grado di rispondere alle domande dei propri consumatori, amplificandone il raggio d’azione. Ma il gigante della moda non si è fermato qui. Guidato da solidarietà e generosità, dopo aver donato 1 Milione di Euro per la lotta al Coronavirus, ha anche lanciato due campagne di Crowdfunding, con l’obiettivo di supportare i propri consumatori nella raccolta di donazioni tramite i canali social, ovvero i più utilizzati dal proprio target. In un momento in cui molti sono costretti a rimanere a casa, Gucci chiede ai membri della sua community di intervenire al suo fianco per raccogliere fondi per alleviare questa crisi.

Rendere tangibili e concreti i propri valori permette di creare empatia col proprio pubblico. Inoltre, dare loro la possibilità di avere un impatto crea un effetto a cascata in grado di generare cambiamento per tutta la società.

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3. Qual è il ruolo più profondo che hai nella società?

Per cosa vuoi che il tuo brand venga ricordato? Qual è l’impatto che vuoi lasciare nel mondo?

Oggi più che mai nella storia, i consumatori si aspettano che i brand entrino in azione per aiutare, come possono. Il loro ruolo all’interno delle società è un argomento che sta vedendo un’accelerazione senza precedenti. E i consumatori stanno rispondendo bene alle proposte lanciate dai brand, brand caratterizzati da una forte umanità, gestiti da persone che hanno valori, che tengono alla salute dei propri dipendenti, della propria comunità e non pensano solo a sbarcare il lunario.

A partire da Esselunga che lancia Amici Vicini, un servizio che punta tutto sulla solidarietà nata in questo periodo e la voglia di aiutare chi ha bisogno, le persone più anziane, chi sta affrontando la quarantena o chi semplicemente è impossibilitato ad uscire, perchè nessuno sia lasciato solo. La piattaforma digitale che mette in contatto volontari e vicini bisognosi d’aiuto, è un’azione concreta di un brand che non è solo bravo a parlare ma dimostra la sua vicinanza ai consumatori prendendosi cura delle esigenze di ognuno e quindi di tutta la società.

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Ci avviciniamo sempre di più al concetto di Civic Brands, diffuso dal pubblicitario Paolo Iabichino, secondo il quale i brand devono tornare ad essere consapevoli dell’impatto che hanno sulla collettività e attivare azioni che non siano solo mascherate dietro alla responsabilità sociale. Questo vuol dire proporre azioni concrete, che agiscono tangibilmente e consapevolmente sul mercato. Lavorare sulla propria purpose, sul proprio ruolo e impatto nel mondo diventa l’elemento chiave per creare una relazione stabile e fidelizzante coi propri consumatori.

Decidere di non parlare, di non agire, di non avere un impatto vero e misurabile in questo momento o di costruirlo per il futuro, potrebbe portare ad una perdita di credibilità, in favore di chi ha invece dimostrato concretezza e vicinanza.

Sara Borchiero, Strategic Designer at CBA

C’è un mondo prima del 21 febbraio 2020. Ce n’è uno completamente diverso dopo quella data.

Sono cambiate le nostre abitudini, sono cambiate le regole del mercato e della società, sono cambiati i nostri consumi. Anche i bisogni che sentivamo più stringenti, ora hanno un peso diverso.

È cambiato tutto.

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Anche prima del Covid-19 eravamo abituati a confrontarci con progetti talvolta molto complessi. Anche prima eravamo alle prese con contesti di mercato in continua e rapida evoluzione e mettevamo a confronto bisogni completamente diversi tra una generazione e l’altra di consumatori.

Il nostro framework di lavoro ha sempre messo in relazione gli interessi degli attori in gioco: il brand con i suoi punti di forza, l’utente con i suoi bisogni e il mercato con le sue regole e le sue prospettive.

In tal senso un progetto era tanto più riuscito quanto più riusciva a creare una connessione di valore tra queste tre prospettive (Fig.1).

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Ora però è tutto diverso. La pandemia Covid-19 ha interrotto relazioni, abitudini, ha rivoluzionato i bisogni delle persone e minato le prospettive delle aziende. Improvvisamente Brand, utente e mercato si sono trovati in mondi diversi, distanti tra loro e apparentemente privi di ogni possibile connessione (Fig.2).

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Solo generando nuove connessioni è possibile far ripartire il sistema e far nascere nuove prospettive di mercato (Fig3).

È una sfida complessa ma necessaria: non ci si può fermare, non si può attendere che le acque si calmino. La posta in gioco è troppo alta anche per le realtà imprenditoriali meno colpite.

Una sfida, che ci vede doppiamente coinvolti: sia come impresa che ha appena festeggiato i primi 10 anni di attività e che vuole continuare a crescere; sia come consulenti, che nel lavoro di tutti i giorni supportano i brand nella creazione di connessioni di valore e di significato con i propri interlocutori.

Stiamo uscendo dalla Fase 1, quella in cui abbiamo aiutato i cliente ad affrontare il lockdown e le relative conseguenze. Siamo ora proiettati nella Fase 2, dove occorre progettare il futuro.

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La scossa è stata forte, imprevista e ha coinvolto tutti. Bisogna iniziare a ricostruire a partire dai propri punti di forza. Occorre ritrovare l’equilibrio, analizzando e monitorando quello che succede dentro e fuori l’azienda: valutare le perdite, eliminare il superfluo, proteggere il proprio core business e continuare a custodire la propria unicità, a tessere la relazione i propri stakeholders e, dove possibile, a dare spinta allo sviluppo dei progetti in essere.

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È ora di ripartire o, quanto meno, di pensare alla ripartenza e a come far fronte a possibili nuovi lockdown. Occorre portare idee nuove in un mondo che forse è cambiato per sempre.

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Con questo spirito abbiamo voluto dare il nostro contributo alla ripartenza, sviluppando Design for Future playbook, una piccola guida che prende spunto da diverse conversazioni con imprenditori e manager. Abbiamo messo ordine ad una serie di domande e costruito un framework che possa aiutare a riconnettere brand, mercato e consumatori.

È suddiviso in tre diverse aree, ognuna della quali si concentra su tre obiettivi diversi.

2.1 Rifondare la relazione con i consumatori.

  • rimodulare tono di voce, contenuti e canali

  • mettere a fuoco valori ed essenza del brand

  • definire l’impatto che il brand intende generare nel mondo

2.2 Rispondere ai nuovi bisogni.

  • reindirizzare la propria offerta rafforzando la presenza sul digitale

  • ripensare alle modalità di vendita/fruizione dei propri prodotti/servizi.

  • ridefinire l’innovazione di prodotto/servizio

2.3 Prepararsi agli scenari del futuro

  • affinare la proposta di valore per rispondere alla nuove sfide del mercato

  • immaginare nuovi scenari di vendita e/o fruizione del servizio

  • ripensare al business model, per proiettare il brand nello scenario futuro

Design for Future Playbook non è solo un framework di lavoro, ma sarà la nostra guida di viaggio per i prossimi mesi. Annoteremo le nostre e le vostre domande, riporteremo le prime risposte che ne nasceranno e quello che scopriremo durante il percorso, racconteremo i nuovi scenari che vedremo emergere.

Una guida aperta a tutti coloro che condividono la stessa curiosità su futuro.

Let’s play!

Come agenzia, lavorare in gruppo in maniera partecipativa è parte integrante del lavoro, per cui questi dubbi si sono palesati sin da subito:

Come si fa un brainstorming con 10 persone per arrivare a un concept, raccogliendo gli input di tutti, in remoto e con qualche connessione ballerina?

Come è possibile organizzare crit (le nostre sessioni di feedback) senza poter fisicamente vedere i diversi prototipi?

Come arrivare agli stessi output di un workshop dal vivo, privilegiando invece una modalità da remoto?

Dopo tre settimane abbiamo la sensazione di aver imparato qualche trucco, che ci sembra interessante condividere con chi come noi vuole lavorare in team e deve farlo da remoto.

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Condividere con ritmo

Abbiamo sperimentato meeting di 15 minuti ogni mattina, per darci il buongiorno, per pianificare le attività della giornata e per condividere eventuali dubbi o criticità.

Una buona routine per rimanere connessi e darci la carica giusta ogni giorno.

Preparare il setting

Lavorare in remoto presuppone ancora più organizzazione che dal vivo.

Abbiamo imparato a chiarire in maniera ancora più puntuale perchè ci si sta video-incontrando, quali sono gli obiettivi della riunione e qual è l’output atteso.

Un memo prima dell’incontro da parte dell’owner del progetto allinea velocemente tutti i partecipanti, riducendo così i tempi di coordinamento che in questo momento rischiano di prendere buona parte del nostro tempo.

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Privilegiare la scrittura

Un altro grande insegnamento di questo periodo è il lavoro asincrono, nel rispetto dei tempi di tutti. Utilizzare il brainwriting come modalità di brainstorming aiuta a raccogliere gli spunti per iscritto (grazie a Google Suite) commentando e migliorando prima ancora di discuterne a voce. Questo riduce i tempi di allineamento e fa sì che nessuno spunto si perda.

Estremamente prezioso anche l’utilizzo dei tool di pianificazione e condivisione come Basecamp o Trello che permettono a tutti di avere la visione su scadenze e task dei singoli membri del team.

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Anticipare gli imprevisti

Con i clienti, abbiamo visto essere utile anticipare eventuali problemi audio e video, inviando delle semplici linee guida sullo strumento scelto.

È anche importante raccogliere i numeri di telefono dei partecipanti ai meeting, per poterli raggiungere in caso di problemi di connessione.

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Rispettare i tempi individuali

I tempi da remoto sono diversi da quelli fisici, quindi evitiamo call troppo lunghe e lasciamo invece dei momenti di riflessione individuale tra un brainstorming e l’altro per rendere più produttivi i tempi di condivisione.

Scegliere gli strumenti giusti

I workshop da remoto sono una realtà ormai da diverso tempo, grazie a strumenti estremamente flessibili e partecipativi come Mural e Miro. Entrambi permettono di poter lavorare su lavagne condivise, condividere i propri input, utilizzare immagini e forme.

Abbiamo sperimentato che un doppio schermo in questo caso è assolutamente utile, sono sufficienti il proprio pc e il telefono cellulare. Lo schermo del proprio pc come strumento per visualizzare la lavagna, mentre il cellulare per essere in video conferenza e poter guardare gli altri al lavoro, per non perdere di vista l’attenzione, il mood e la concentrazione dei partecipanti.

Persino le nostre ricerche etnografiche non si sono fermate. Abbiamo in questi giorni riscontrato anche la voglia da parte degli intervistati di contribuire e facilitare il lavoro di tutti. Una video chiamata utilizzando Facetime o Google Meet riesce infatti a farci entrare in casa delle persone e osservare la loro routine (in questi giorni decisamente amplificata), per trarre in ogni caso insight interessanti.

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Affidarsi al proprio team

Il punto di partenza di tutti questi insegnamenti è la fiducia che si ripone nel proprio team, che anche nelle condizioni più avverse, riesce a trovare soluzioni alternative, nuove modalità e tools diversi.

Per noi snellire un po’ di comunicazione e dare alle persone i giusti tempi, non sono altro che minime innovazioni di processo che stanno rendendo questo periodo così complesso, una piccola scoperta.

Cinzia Malerba, Strategic Design Lead CBA

I supermercati nel Regno Unito e negli States sono affollati da nuove food-startup che stanno innovando (e spesso scuotendo) l’FMCG market con nuovi prodotti e una distintiva nota di stile.

Questo fenomeno è ben visibile osservando l’espansione “orizzontale” degli scaffali di ketchup, che sono passati da contenere un numero esiguo di referenze ad almeno una dozzina di varietà (da quello addolcito con sciroppo d’agave a quello piccante con l’habanero, passando dal ketchup a base di rape rosse).

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Nel mondo del gelato invece succede che un’azienda come Ben and Jerry’s viene scalzata dal ruolo di best-seller dalla Halo Top, brand di Los Angeles che con soli 5 anni di attività alle spalle sta riscuotendo un grande successo, arrivando a detenere una quota del 5% del mercato del gelato americano. I pop-corn aromatizzati (Propercorn ne è un esempio) rimpiazzano le patatine, le barrette di datteri o di nocciole minacciano quelle di cioccolata, l’acqua di cocco sta invadendo gli scaffali del succo d’arancia.

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Gli esempi sono tanti ma c’è un dato su tutti che dà la misura di questo cambiamento nel mercato del food: tra il 2013 ed il 2017, l’88% dei nuovi prodotti comparsi sugli scaffali degli Stati Uniti è arrivato da piccole o medie imprese. Anche i supermercati europei mostrano un trend simile.

Cos’è cambiato?

Quando arriva il momento di entrare sullo scaffale dei supermercati i piccoli produttori sono costretti ad un cambio di passo: allungare i tempi di scadenza, packaging più resistenti, tracciabilità totale della materia prima e investimenti nell’ in-store marketing, oltre che dedicare del tempo allo stalking dei buyer, i veri gatekeeper degli scaffali dei supermercati. Qui la lotta tra le piccole aziende e le multinazionali ha da sempre visto queste ultime in posizione di vantaggio. Ma ultimamente non è il solo potere di acquisto degli spazi a scaffale che decreta i vincitori di questa battaglia: sempre più spesso oggi sono gli stessi supermercati ad aver bisogno di proporre un’offerta innovativa e differenziante. Per combattere la competizione dell’online sono loro stessi ad “aprire” le porte (e gli scaffali) alle startup.

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Viceversa l’innovazione non è alla portata di tutti. Sempre più spesso assistiamo ai big dell’industria alimentare investire nelle piccole startup o sviluppare partnership con esse. Quando non ci sono veri e propri acquisti milionari (come è successo nel Regno Unito al the Pukka, al cibo per neonati Ella’s Kitchen o agli snack di frutta Bear Nibbles) quello che sempre più spesso accade è che i piccoli brand riescano ad attrarre investimenti, sia da investitori istituzionali che grandi retailer, riuscendo acrescere velocemente e conquistare posizioni che fino a poco tempoprima gli erano precluse.

Che questa nuova ondata di piccole e medie imprese dell’industria del cibo possa essere un buon segnale, e un’opportunità da cogliere, anche per l’Italia? La cultura eno-gastronomica certamente non manca ed il tessuto industriale è storicamente costituito da una rete diffusa di PMI, molte delle quali (si stima il 25% delle imprese che fatturano tra i 20 ed i 50 milioni) devono affrontare il delicato tema del passaggio intergenerazionale nei prossimi anni, dando spazio agli innovatori di domani. Come innescare un bel circolo virtuoso che metta in connessione big, startup e retailers?

Francesco Saviola, Strategic Designer at CBA

Questioni spinose e divisive, legate alla sfera politica o morale, hanno spesso rappresentato dei tabù per le grandi aziende. Il rischio di contraccolpi negativi nel farsi portatori di messaggi critici o polemici ha molto spesso trattenuto brand e imprenditori dal prendere posizione pro o contro una determinata causa.

Qualcosa è cambiato.

Uno dei casi più eclatanti è quello di Nike con la campagna del quarterback Colin Kaepernick, simbolo della lotta contro l’oppressione degli afroamericani, che dal 2016 è stato escluso dalla National Football League dopo aver protestato contro le violenze della polizia sui giovani afro-americani, rimanendo seduto durante l’inno nazionale. In seguito alla campagna sono comparsi video di persone che bruciavano le proprie Nike, ma anche, a quanto pare, una maggioranza di feedback positivi su tutti i social con un bilancio finale in termini di visibilità, molto rilevante.

NIKE

Un altro esempio importante di “presa di posizione” rispetto a temi politici è la campagna “Rainbow is the new black” prodotta da Netflix lo scorso giugno in occasione del Gay Pride di Milano, dove la stazione metro di Porta Venezia è stata tappezzata con i colori dell’arcobaleno e le foto di molti protagonisti omosessuali delle serie tv Netflix. Qui siamo di fronte non solo al sostegno della causa per il riconoscimento dei diritti della comunità LGBTQ, da sempre evidente nel palinsesto dell’offerta Netflix, ma anche e soprattutto la volontà di essere parte di un evento come il Pride che era stato duramente attaccato dal Ministro alla Famiglia italiano, assumendolo a bersaglio diretto della campagna.

NETFLIX

Non mancano gli esempi di chi prova a fare questo passo ma fallisce: Pepsi è stato duramente criticato per uno spot video in cui la supermodel Kendall Jenner, in mezzo ad una “manifestazione di protesta”, porge una lattina di Pepsi ad un poliziotto portando così la pace tra i due schieramenti. Le critiche si sono abbattute con violenza sullo spot, che sembra sfruttare e banalizzare l’immaginario del movimento Black Lives Matter per il proprio tornaconto economico.

Altro esempio finito piuttosto male: il magazine di musica Rolling Stones che con un appello ha preso posizione contro le politiche migratorie del Governo appena insediato a luglio, dividendo molto l’opinione pubblica, per poi deludere tutti con la scoperta che molti firmatari dell’appello erano stati inseriti senza nemmeno saperlo.

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Al di là del successo o meno di queste campagne è interessante capire perché proprio oggi i brand abbiano cominciato a prendere posizione.

Un primo motivo appare legato al ruolo sociale che i consumatori attribuiscono alle aziende private: sempre più persone si aspettano che il cambiamento sociale debba provenire da loro piuttosto che dalle istituzioni pubbliche. L’88% degli americani pensa che le aziende abbiano effettivamente il potere di produrre cambiamento sociale (SONAR, 2016). La fiducia nelle imprese, spesso contrapposta alla scarsa accountability delle istituzioni pubbliche, è collegata alla percezione di poter influenzarle con i propri comportamenti d’acquisto. Un’altra indagine infatti riporta un dato clamoroso: nel 2017 il 50% degli americani ha partecipato ad almeno un boicottaggio nell’arco dell’anno, con un incremento del 20% rispetto al 2016 (K. Endres, C. Panagopoulos, 2017). Questo mutamento di percezione sul ruolo sociale dei brand, contrario alla convinzione classica che etica e business vadano in direzioni opposte, ha portato alcuni economisti come Chris Ladd a parlare di Social Capitalism: un sistema economico in cui la gente considera l’acquisto non come uno scambio di beni ma come un voto. Il terreno di competizione tra i brand sembra essersi esteso alla politica, portando le aziende ad avere una posizione sulle questioni sociali in modo tale da “essere votati”.

Un altro motivo è legato al contesto politico stesso che vede i brand costretti a prese di posizione di fronte a politiche governative radicali o estremamente divisive, che spesso impattano direttamente anche sui business delle aziende come accaduto per il “Muslim Ban” voluto da D. Trump. Nel gennaio 2017 il divieto di accesso negli States per i cittadini di 7 nazioni a maggioranza araba, ha visto una dura reazione pubblica dei giganti tech della Silicon Valley che hanno tra la propria forza lavoro i migliori cervelli provenienti da tutto il mondo. Google, Facebook, Apple, Uber, Microsoft, Netflix e molti altri, hanno condannato il provvedimento facendo riferimento non solo alle conseguenze negative per lo sviluppo delle proprie aziende ma anche ai principi fondamentali di inclusione e apertura che hanno reso gli USA la potenza che oggi è.

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In questo contesto, idealismo e opportunismo di marketing si intrecciano senza soluzione di continuità e non è sempre facile dire se e quando è opportuno per i brand rischiare di esporsi. Bloomberg ha quantificato in 43 milioni di dollari il valore dell’esposizione mediatica generata in 24 ore,dopo che lo spot Nike di Kaepernick è apparso su Twitter. Questo anche se il presidente degli States D.Trump l’ha definito uno spot che “dà un terribile messaggio”. Certamente quando Nike ha preso questa decisione l’ha fatto con coscienza di causa, conoscendo la propria base di utenti – in maggioranza under 35, di diverse origini etniche (NPD Group) – e puntando a far breccia su di loro, in classico stile Nike che dagli anni ’70 ha sempre puntato su atleti dirompenti.

È qui forse la chiave di volta che distingue i casi di attivismo politico di successo da quelli fallimentari. “In classico stile Nike” significa che il brand ha preso posizione in modo coerente con sé stesso. Perché Kaepernick “just did it”, credeva in qualcosa e l’ha fatta, ad ogni costo.

Per i brand è possibile fare “politica” purché prendano posizione in modo coerente con la propria purpose, la propria ragion d’essere nel mondo rispetto alla società. In un contesto dove la sfiducia nelle istituzioni è ai massimi livelli e i governi attuano politiche divisive e polarizzanti, per i brand sembra aprirsi un nuovo spazio d’azione dove però non sempre tutti hanno qualcosa da dire.

L’attivismo politico deve essere allineato con valori, comunicazione e visione del mondo dei brand.

Francesco Saviola, Strategic Designer at CBA

Il mese di Ottobre ci ha visti attraversare l’Oceano e l’Europa per partecipare a due eventi sul tema dell’innovazione: Gianfranco e Irene hanno fatto tappa all’Innovation Festival di New York mentre Sara e Marta si sono immerse nel mondo delle startup al Web Summit di Lisbona.

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New York, con la sua energia e la sua velocità, ci ha lasciato la sensazione di esserci immersi in un futuro prossimo, ricco di brand ed esperienze che da qui osserviamo solo (per ora) su piattaforme di e-commerce e blog. Tra edifici post industriali di Dumbo e palazzetti di Manhattan, abbiamo avuto l’occasione di attraversare in lungo e in largo la New York delle agenzie e dei brand più innovativi per ascoltare CEO e founder confrontarsi sul tema. Energia e location sono sicuramente due ingredienti che ci portiamo più che volentieri a casa: più keynote speech e meno workshop è invece quello che avremmo consigliato agli organizzatori rispetto ai contenuti.

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Lisbona durante il Web Summit si anima di persone provenienti da tutto il mondo, eventi, talk, speech, incontri, elevator pitch in cui startup innovative e i big del settore–da Netflix a Google, da Booking a Burger King–prendono parola. Tante cose da vedere, scoprire ed in cui perdersi nella conferenza sulla tecnologia più grande e importante del mondo. Forse troppe. A tratti confuse. Se non si ha un’idea ben precisa di ciò che si vuole vedere il rischio di perdersi è dietro l’angolo.

Cosa ci siamo portati a casa?

La Gen Z non è poi così lontana: un interessante intervento di DJ Capobianco, Research Manager di Twitter, ha analizzato un’indagine svolta tra le matricole della UCLA ogni anno, da 50 anni a questa parte, in cui si chiede agli intervistati di definire una priorità tra una serie di valori proposti. Cos’è cambiato tra le diverse generazioni? La gerarchia dei valori di riferimento è sostanzialmente la stessa…allora perché la Gen Z, protagonista di report e convegni, è rappresentata e raccontata così sostanzialmente diversa (come qui, o qui o qui)? La sua risposta è semplice–e quasi banale–ma illuminante: è la tecnologia che abbiamo a disposizione che abilita nuove modalità di racconto e di rappresentazione della realtà nel corso delle generazioni (pensate a come venivano ritratte le persone in epoca vittoriana…non saranno stati tutti così noiosi e rigidi, no?). In fondo, invece, siamo tutti uguali.

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Come domare la distrazione: Nir Eyal, autore del best seller Hooked, si è interrogato sul palco di New York su come affrontare la più aggressiva delle minacce delle nostre giornate lavorative: la distrazione. Eyal rintraccia nello smartphone uno dei device più potenti da questo punto di vista ma lo guarda con occhi nuovi: non è la causa della nostra distrazione, è solo un sintomo. Di un malessere, di mancati incentivi e di chiarezza rispetto alle attività che dobbiamo svolgere. D’altra parte come possiamo dire di u0022essere stati distrattiu0022 se non sappiamo “da cosa” siamo stati distratti?

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Le regole d’oro dei brand direct to consumer: i brand direct-to-consumer sono oggi protagonisti di una serrata competizione in industry consolidate. Cos’hanno in comune Casper, Parachute o Brandless? Tra gli altri, hanno progettato la loro proposta di valore a partire da pain point delle attuali esperienze, sono estremamente coerenti su tutti i punti di contatto, puntano su una filiera il più possibile trasparente, il founder è il brand, il prodotto è frutto di aggiustamenti continui che nascono da feedback loop in cui l’utente è protagonista. Ma cosa ancora più interessante è che per loro il retail fisico è uno strumento cruciale di marketing per costruire trust intorno alla marca e una relazione solida con i propri consumatori, prima ancora che un canale di vendita. Tutto questo a vantaggio dello stesso universo online: una volta che sono u0022in città” sono anche più efficace nel garantire performance di consegna ottimali, come il same day delivery.

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Have a voice: I brand oggi decidono di schierarsi. Di mostrare e affermare i valori in cui credono. Che sia con un progetto di marketing come fa Coca Cola trasformando un modo di dire omofobo e razzista in un simbolo di orgoglio per la comunità LGBT. O con servizi per le comunità locali creati ad hoc, come Stayfree, un progetto promosso da Dove India, con l’obiettivo di aiutare e supportare le donne che lavorano nel mercato del sesso, insegnando loro un nuovo lavoro durante i giorni del ciclo.

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Be on every screen: Non sono più i consumatori ad adattarsi a ciò che viene loro offerto ma sono i brand a doversi adattare ai modi di fruire i contenuti da parte dei propri utenti. Che sia sul treno, a casa, in ufficio o al parco, i consumatori devono avere la possibilità di accedere ai contenuti dove, come e quanto vogliono. Possibilmente con contenuti creati ad hoc per ogni canale. Pensate che solo che Netflix è disponibile su 17mila tipologie di device e utilizzato da 518milioni di device a livello mondiale.

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Let them create: I consumatori non si accontentano più di accedere a prodotti o contenuti multimediali, ma vogliono cimentarsi in prima persona. Vogliono mettere le mani in pasta, creare qualcosa che sia di valore per tutta la community. Da questo nuovo livello di interazione tra brand e consumatori è nato Minecraft Marketplace, che permette ai giocatori di creare i propri giochi all’interno della piattaforma e di rivenderli sulla stessa agli altri utenti. Penrose Studios, invece, ha creato una tecnologia proprietaria per renderizzare i propri film in modo più veloce, per fruire un’interazione in VR. L’ha poi resa disponibile e open source per permettere a chiunque fosse interessato di sperimentare con questa nuova tecnologia.

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Ma quindi, ne valeva la pena?

Indipendentemente dalla profondità o meno dei contenuti che possiamo avere incontrato il nostro lavoro è esplorazione, curiosità, scoperta. Con o senza festival, con o senza viaggi, questi momenti ci ricordano quanto è essenziale riuscire ad avere uno sguardo nuovo, critico, vigile e sempre aperto su tutto quello che ci circonda.
Sì, ne valeva la pena.

Le recenti ricerche nell’ambito della sociologia dei consumi suggeriscono che questo shift sia possibile grazie ad alcune tendenze valoriali, fra cui spiccano quelle dell’efficientismo e dell’estetismo (addirittura, il sociologo Gilles Lipovetsky asserisce che “oggi, il vettore dell’estetizzazione del mondo non è più l’arte, ma il consumo”).

I mercati dello sport e della cosmesi sono indubbiamente rappresentativi delle due tendenze: da un lato l’esaltazione dell’efficienza, legata alle prestazioni sportive, dall’altro la celebrazione dell’estetica, principale arena dell’offerta cosmetica. Entrambi i mondi propongono narrazioni che sottolineano i connotati emotivi legati al superamento dei propri limiti, sia che derivino dal faticoso raggiungimento di un traguardo sportivo, sia che dipendano dall’aver scongiurato i segni evidenti della fatica sul proprio volto.

Sport e cosmesi hanno sempre guardato al concetto di fatica ma, storicamente, in maniera diversa: nello sport, fatica-uguale-dolore, nella cosmesi, fatica-uguale-sintomo da cancellare o nascondere.

È però anche possibile individuare molti valori comuni. Alcuni tra tutti: tecnologia innovativa, design innovativo, statement item, bio e vegan.

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Puntare su questi valori, offre un punto di vista utile ad individuare il profilo del nuovo concetto di fatica, tenendone conto al fine di attrarre i clienti attuali e potenziali alla pratica dello sport come cura del sé: sinonimi di fatica possono infatti diventare, virtualmente, termini come energia, audacia, controllo, esperienza, fascino, costanza, efficacia.

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Se prendiamo ad esempio il mondo del ciclismo vediamo evidente l’emergere di questi valori anche nella visual identity e nell’immaginario iconografico costruito dai principali player: un linguaggio che strizza l’occhio ai trend più di nicchia, energetico, vivace, capace di far diventare la fatica desiderabile.

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Il mercato della cosmetica è in continua crescita, sempre guidato da poche grandi multinazionali, alle quali però si è affiancato un numero sempre maggiore di piccoli brand di nicchia nati in mercati locali. Di cosa si occupa, al fondo, l’industria cosmetica? Di una promessa di bellezza, venduta attraverso sogni, illusioni e a volte miraggi: fermare il tempo, provare ad ottenere la giovinezza eterna o più semplicemente la bellezza instantanea. Parlando di bellezza, mi sono chiesto cosa sia e come si possa definire. Forse non esiste un argomento più soggettivo di questo: ognuno di noi è diverso dall’altro e ognuno di noi è bello a suo modo, quindi si potrebbe dire che non esiste una bellezza unica ma che ci sono tante bellezze. Se siamo tutti diversi ma ogni brand cosmetico offre la stessa promessa di bellezza, a chi credere, e come scegliere tra un prodotto e l’altro a parità di funzione e benefici? È qui che entra in gioco il brand design, in quanto strumento capace di dare una forma a delle promesse di marca che possono sembrare indistinte, dando loro una precisa identità, rendendole diverse le une dalle altre e desiderabili per le persone. Cosa è desiderabile oggi?

Ogni giorno facciamo scelte sostenibili

La sostenibilità ambientale è sicuramente qualcosa che tutti cerchiamo. Il consumo responsabile non è più un’attenzione di pochi ma è diventato un sentore comune, perché ogni giorno facciamo scelte sostenibili in maniera più o meno consapevole. Avviene per il cibo che mangiamo e l’acqua che beviamo, così come per gli scarti che differenziamo, ma anche per i vestiti e i prodotti cosmetici che compriamo e indossiamo. Le decisioni di acquisto sono guidate da scelte ecologiche e naturali, dove il termine naturale comprende prodotti biologici, così come prodotti che vengono da fonti sostenibili e rinnovabili o anche solo prodotti “clean label”. Come la sostenibilità incide sull’industria cosmetica?

Piccoli brand locali

Il mondo della cosmetica registra una nascita continua di piccoli brand incentrati sul biologico. Molti brand di nicchia, che lavorano a chilometro zero, con ingredienti biologici oppure focalizzati sulla potenza del singolo ingrediente naturale, attenti anche agli aspetti etici: arriva da loro una risposta sempre più forte per chi sta cercando uno stile di vita sostenibile. Questi piccoli brand sono spesso accomunati dal buon senso: non si promettono miracoli, più semplicemente ci si affida al potere positivo della natura.

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Brand multinazionali

A questa ricerca di naturalità non rispondono però solo i piccoli brand indipendenti: anche le multinazionali si stanno muovendo in qualche modo. Dopo avere predicato bene e razzolato male per decenni, nel tentativo di saltare sul treno della sostenibilità, ora anche loro cercano di differenziarsi alleggerendo la propria impronta ecologica con brand e prodotti dalla base più o meno naturale.

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Più esperienze, meno possesso

Un’altra cosa che cerchiamo sempre con maggiore interesse è di vivere delle esperienze quanto più significative in tutto ciò che facciamo. Cerchiamo più l’esperienza che il possesso, e di conseguenza consumiamo un po’ meno, ma spostiamo più facilmente le nostre spese su prodotti di maggior qualità. Questo succede in moltissimi aspetti delle nostre vite, ad esempio nella musica. Se negli anni Novanta collezionavamo CD, siamo entrati nel nuovo millennio riempiendo i nostri iPod di MP3 e ora siamo semplicemente passati a Spotify, e di colpo non ci serve più possedere la musica che ascoltiamo. Ma spendiamo comunque parecchio per la musica, comprando biglietti per concerti evento, edizioni da collezione, costosi giradischi e cuffie wireless sempre più raffinate.

Cosa c’entra questo con l’industria cosmetica e come i brand stanno rispondendo a questo trend?

Lo stanno facendo quei brand di alta gamma, ultra costosi, che sono un simbolo di ricchezza, quei brand che dicono di possedere le proprie materie prime, selezionate e rarissime. E questo avviene in particolare nei mercati emergenti, come la Cina, dove si nota una particolare voglia di essere associati a prodotti costosi, in particolare quando si tratta di combattere i segni dell’invecchiamento e cercare la giovinezza a tutti i costi. È tutto un gioco di esclusività, a cui partecipano molti prodotti favolosi riempiti di ingredienti rari e costosi, per i quali la promessa di un’esperienza unica vale più dell’effettiva efficacia del prodotto stesso.

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Giacomo Cesana
Creative Director