Un numero crescente di brand ha iniziato a parlare al mondo della “malattia” (e di conseguenza della cura) usando linguaggi e approcci totalmente nuovi.

È il caso di Keeps, che affronta il tema della calvizie – acerrima nemica di tutti gli uomini, soprattutto i più giovani – con un tono ironico e disinibito. Avere un problema non è più una vergogna da nascondere, la vergogna oggi è non fare nulla per risolverlo. Di questo stesso avviso è anche Hims, che aiuta a rompere i tabù sulla salute sessuale maschile così da permettere agli uomini di parlare dei propri problemi con ironia. Foto di cactus, ora nel pieno del proprio vigore, ora avvizziti, sono la metafora non troppo velata con cui presentare la gamma di prodotti per la disfunzione erettile. Queen V infine, vuole porre fine alla stigmatizzazione del tema dell’igiene femminile. Con un processo in 3 facili step offre prodotti per raggiungere, mantenere e quindi godere della propria salute in libertà e spensieratezza.

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I prodotti venduti da Keeps, Hims e Queen V non son tanto diversi da quelli di molti altri competitor che si possono trovare sugli scaffali di farmacie o supermercati, in termini di “prodotto”. Quello che cambia però è il modo in cui si rappresentano e comunicano. Per esempio, balza subito all’occhio l’immagine di marca che usa colori, font e linguaggi visivi inconsueti per rimedi farmacologici.

Ma non è tutto qui. L’operazione (di successo) compiuta da questi brand va ben oltre il semplice imbellettamento di un prodotto già esistente: la rappresentazione estetica della marca e della sua comunicazione sono solo la punta dell’iceberg. Il vero cambiamento riguarda il significato che assume la malattia (o il “problema” fisico o psicologico che affrontano) nell’immaginario di questi brand.

Da intervento a percorso

Il primo cambio di prospettiva è stato rispondere ad uno specifico problema non con un intervento ma con un percorso. Si tratta spesso di condizioni da cui non si guarisce, che implicano la ripetuta assunzione di medicinali e un cambio, spesso radicale, dei propri comportamenti.
La soluzione non è una cura miracolosa che si assume nel momento dell’emergenza, ma un percorso. Un percorso fatto si di pillole, pomate o sciroppi, ma assunti secondo una posologia che si adatta al singolo individuo e al corrente stadio della malattia, accompagnati da comportamenti e buone abitudini che insieme vanno a definire un nuovo stile di vita.

Per permettere all’utente di agire fin da subito e con regolarità, senza stress e senza stravolgere la propria vita quotidiana, questi nuovi brand propongono un modello di business a subscription. Care of personalizza i propri pacchetti di vitamine e integratori in base ai bisogni e alle preferenze espresse dall’utente tramite un quiz online. Questi vengono poi consegnati regolarmente a casa, secondo le proprie necessità sempre modificabili online.

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Curology fa un passo ulteriore nel personalizzare le proprie creme per la cura della pelle secondo le necessità del singolo individuo. Lo fa mettendo in contatto ogni utente con un professionista in grado di identificare e mischiare gli ingredienti corretti per creare la giusta lozione per lui – che a scanso d’equivoci prende proprio il nome dell’utente – e continui a seguirne i progressi.

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Gli utenti sono seguiti e accompagnati nella loro vita quotidiana anche grazie a contenuti appositamente creati per educare i consumatori, consigliando quali comportamenti mantenere, sfatando miti e tenendoli aggiornati su novità e iniziative. Abbonandosi agli assorbenti interni di Callaly, si possono anche leggere, nel loro journal, guide specifiche, interviste ad esperti, storie di donne reali e iniziative sociali.

Dalla vergogna all’orgoglio

Un secondo cruciale cambio di prospettiva è quello di considerare il proprio stato di salute non più come qualcosa di cui vergognarsi ma qualcosa di cui parlare. I brand si mettono in ascolto dei propri utenti, smettono di offrir loro una maschera che nasconda il problema per far finta che non esista. Al contrario vogliono aiutare chi soffre a parlare della propria condizione così da scoprire di non essere da solo, trovando conforto e forza nelle storie di altre persone.

Le esperienze digitali di questi brand sono progettate per offrire quante più occasioni possibili di contatto con esperti e membri della community.
L’ironia con cui Hims normalizza ed affronta i problemi è comune a molti brand. Un approccio più empatico e personale è invece quello di Blume. Le due sorelle che l’hanno fondato hanno provato sulla propria pelle il disagio di non trovare prodotti efficaci e allo stesso tempo convenienti per l’igiene intima e la cura del corpo in fase adolescenziale. Sono partite perciò dalla propria storia e, ispirandosi anche dalle storie di altre ragazze, hanno creato quella che definiscono una ‘gang’ di prodotti dei quali le loro utenti, con le loro storie, sono le migliori testimonial.

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Rotto il ghiaccio ed aperto il dialogo, si costituiscono delle vere e proprie community intorno ai brand. Genneve si presenta più come una clinica online di ascolto che un e-commerce di prodotti per la menopausa. Il tipo di conversazioni che offre alle proprie utenti tocca tutte le possibilità, dal dialogo uno a uno con un esperto al forum con le altre appartenenti alla community.

Dalla paura alla libertà

Un ultimo cambio di prospettiva è quello che porta gli utenti a trasformare la loro paura in libertà. Il vero obiettivo dei brand nominati fino ad ora è quello di rendere i propri consumatori liberi di vivere la propria vita. Senza pensieri, senza paure riguardanti la propria salute. Quando i brand affrontano condizioni che insorgono in un certo momento della vita dei propri utenti, sconvolgendo la normalità a cui erano abituati, devono saper comunicare loro che è possibile continuare a vivere. Non solo è possibile, è anche bello e divertente.

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È un inno alla libertà quello che lancia Queen V, con i suoi colori sgargianti e le foto di donne vere e felici. Vuole dare a tutte la libertà di “dire il termine vagina senza imbarazzo” e di smettere di preoccuparsi per la propria igiene e salute, perché è possibile occuparsene ovunque e in qualunque momento. Hers è un altro brand che crea contenuti ed offre prescrizioni online per rimettere le donne in controllo della propria salute. Convinto che nessuno possa farlo meglio di loro stesse, le aiuta a conoscere il proprio corpo e a rispondere ai suoi bisogni. Thinx dissipa ogni dubbio sul ciclo e sulla tenuta della propria biancheria per il ciclo mestruale con simulazioni di vita reale. Utenti-influencer sono ulteriori dimostrazioni con i racconti delle le proprie giornate sui social.

L’immagine di marca di questi nuovi brand ci racconta una storia più ampia, che va oltre il semplice pack e gli slogan: è la malattia ad aver bisogno di nuovi approcci e linguaggi, non i prodotti farmacologici. Cambiando prospettiva la marca funge cosi da faro, capace di guidare ogni sua manifestazione – da quella visiva al modello di business.

Marta Fontana, Strategic Designer at CBA

La indirect-brand-economy che ha abbracciato più di un secolo (dal 1879 al 2010), si fondava su un processo collaudato: il brand attraversava diversi intermediari, a partire dall’agenzia pubblicitaria, passando per gli editori e i distributori, per arrivare, solo alla fine, ai consumatori.

Quali sono gli ingredienti di questa nuova ricetta vincente? Sfruttando il mutato panorama di supply chainincentrato sulle tecnologie informatiche e la rete, i player nativi digitali (materassi, padelle, valigie epersino lenzuola, per fare degli esempi) sono in grado di proporre un’esperienza di qualità superiore diprodotto e servizio, ad un quarto del prezzo tipico. Si, ma come?

Ascoltano i loro consumatori

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Il brand newyorkese Care Of sottopone i suoi clienti ad un esaustivoquestionario di 48 domande prima di sviluppare una proposta di integratori adeguata alle loro esigenzee/o carenze specifiche.

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Focus maniacale sulla customer experience

Birchbox, un servizio a subscription di make up, proponeogni mese alle sue clienti ben 5 samples di prodotti cosmetici nuovi da provare. Offrono cosi un effettosorpresa vincente, accompagnato dall’esperienza di unboxing particolarmente accattivante (ogni meseuna confezione dal design particolare).

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Usano i contenuti come elemento differenziante

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Lo storytelling è parte centrale della lorocomunicazione. Huel offre ai propri consumatori una nuova e articolata prospettiva sull’alimentazioneattraverso un’offerta di ricette studiate da nutrizionisti professionisti. Non si fermano però allapromozione della qualità del loro prodotto ma si fanno promotori di battaglie di sensibilizzazioneparlando dell’emergenza cibo e dell’eccessivo sfruttamento delle risorse ambientali per produrre cibiprovenienti da fonti animali.

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La loro missione è la loro storia

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Un esempio su tutti è il brand di assorbenti in cotone biologico Ohneche incentra la comunicazione sul superamento dei taboo rispetto al ciclo mestruale, visto ancora moltospesso come motivo di imbarazzo. Il brand ha fatto propria la causa dell’abbattimento di tutti glistereotipi di genere, andando oltre il tema specifico delle mestruazioni.

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Partono dai dati

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Raccolgono autonomamente i dati relativi ai propri clienti al fine di garantire unapproccio su misura. Graze, analizza i gusti dei propri consumatori prima di spedire loro il box mensiledi snack, selezionando cosi solo quelli più in linea con le loro preferenze.

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Hanno una nuova strategia con la quale aprono i retail

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Boll & Branch, che propone lenzuola dicotone biologico ha deciso di aprire un retail store fisico per venire incontro al desiderio dei propriclienti di toccare con mano la piacevolezza e la qualità dei prodotti, mostrando il moderno, inusuale,passaggio dall’online all’offline (piuttosto che il contrario, come in passato).

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Dov’è dunque l’innovazione? Come fanno a differenziarsi in maniera così sostanziale?

Saltando i canali tradizionali, disegnando il prodotto in-house e stringendo una relazione di estremafiducia con i clienti, basata su valori condivisi.

Sono diversi anni ormai che questi brand consolidano fatturati e crescita, configurandosi come modelli diriferimento, piuttosto che come meteore di passaggio. Per intenderci, la quota di mercato dei rasoimaschili negli stati Uniti posseduta da Gillette è precipitata al 54% nel 2016 dal 70% nel 2010, mentre le quote di Dollar Shave Club e Harry’s, sono salite al 12.2% dal 7.2% del 2015 (Fox Business, 2017); la crescita di fatturato deigrocery store, in generale, si prospetta essere intorno all’1% nel 2022, mentre il mercato dei Meal Kitcrescerà di 10 volte per la stessa data (Technomic, 2016).

L’assunto di base di queste piccole realtà emergenti è che al centro del business model c’è il rapporto conil cliente. Un rapporto che si declina in servizi personalizzati e con una customer experience mai provataprima, dove di fatto conta il servizio nel suo complesso, che incarna valori, emozioni e desideri positivi peril cliente, più che il prodotto fisico in sé. Attraverso un feedback continuo, una comunicazione two-way, ibrand possono migliorare continuamente questo aspetto relazionale.

Tutto questo non impatta solo chi oggi sta nascendo, ma anche chi già esiste inducendo ad unripensamento rispetto ai ruoli di tutti i canali di comunicazione e contatto col brand, fra cui i retail storefisici, che lungi dallo scomparire saranno sempre più concepiti per finire (o iniziare) quello che gli spazidigitali hanno inaugurato. Non a caso, anche un brand come Nike sta prendendo esempio dalle nuove,piccole realtà, adattandosi al trend del direct-to-consumer, e dal 2010 al 2020 le previsioni del risultatodelle sue nuove strategie direct-to-consumer sono un passaggio da 19 miliardi di dollari di ricavi a 50miliardi.

Irene Serafica
Chief Strategy Officer at CBA


Abbiamo discusso di come i brand si possono comportare rispetto allo switch digitale. Veniamo ora all’altro attore interessato dall’avanzata dello shopping online, ovvero il mondo del retail che commercializza i prodotti dei brand, il “contenitore” che guida le nostre scelte di acquisto.

Fino ad oggi il retail offline ha giocato un ruolo chiave nel definire l’esperienza di acquisto dei propri clienti, soprattutto delle sue fasi iniziali: conoscenza, test, ricerca e selezione del prodotto. Oggi tutto questo avviene sulle piattaforme digitali. Come ripensarle in relazione ai diversi comportamenti di acquisto che ci caratterizzano? Come renderle accattivanti e non demandare l’esperienza al semplice motore di ricerca e ai suggerimenti personalizzati? Come immaginare lo scaffale digitale del futuro, capace di catturare l’attenzione del consumatore e di rispondere alle sue specifiche esigenze?

La risposta a queste domande arriva dai risultati della ricerca qualitativa che abbiamo condotto intervistando un campione selezionato di persone a Parigi, Milano e San Francisco ed indagandone le loro abitudini di acquisto: abbiamo così identificato 5 purchase behavior, comportamenti di acquisto che ci caratterizzano a seconda dell’attitudine allo shopping e all’oggetto dell’acquisto. Per ciascuno abbiamo immaginato delle possibili soluzioni digitali che rendono il percorso di acquisto rilevante per ogni esigenza.

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È il comportamento tipico di chi legge meticolosamente tutte le informazioni su tutti i prodotti che consulta, confrontandone le caratteristiche, per capire quale risponda meglio alle proprie necessità specifiche. Il tempo impiegato per la spesa ed il prezzo non sono driver di scelta centrali, quanto piuttosto la specificità delle informazioni e la possibilità di comparare in modo semplice più prodotti. In questo caso un “comparatore di prodotti” sulla piattaforma di e-commerce è lo strumento ideale per questo tipo di consumatore, o su particolari categorie di prodotti che si prestano ad essere comparate (non il sale grosso o lo zucchero, ad esempio).

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È il comportamento d’acquisto di chi si lascia incantare da prodotti esteticamente accattivanti e innovativi, con forme, immagini e design che valgano la pena di essere postati su Instagram. Non vi è una fedeltà ai brand, ma una ricerca e una sperimentazione continua delle novità che di volta in volta si presentano agli occhi del consumatore come seducenti e che generano acquisti compulsivi. Un e-commerce che voglia essere rilevante per questo comportamento d’acquisto dovrebbe avere una sezione dedicata che si concentri molto su contenuti visivi che sappiano sorprendere ed appagare la ricerca estetica. Questo si può sviluppare con una selezione accurata dei migliori prodotti disponibili in store, fotografati nel dettaglio ma anche contestualizzati nel loro utilizzo reale, catturando così l’attenzione molto più di quanto non lo facciano le piccole immagini standardizzate, su fondo bianco, tipiche dei cataloghi di e-commerce. 21 Buttons è un esempio, nel campo della moda, di come i prodotti possano essere visualizzati in modo accattivante e di come anche influencers e modelli possano essere coinvolti in questo tipo di presentazione del prodotto.

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Letteralmente a caccia di affari, è un purchase behavior che è chiaramente legato al prezzo come componente fondamentale di ogni acquisto. Ma non solo e non tanto il prezzo in assoluto (da discount); qui si intende il piacere vero provato da chi sa di aver comprato qualcosa ad un prezzo inferiore a quello che è il “vero valore” percepito. Perché allora non dotare le piattaforme di e-commerce di un configuratore che raccoglie i dati di acquisto, e tramite un percorso di scelta guidato da semplici domande, ti proponga i migliori affari disponibili nel punto vendita? Questo sistema potrebbe basarsi su una scelta legata alle occasioni di consumo invece che sul concetto di lista della spesa: devi preparare un cena per quattro persone, a base di pesce, con un budget ridotto? Il sistema è in grado di proporti un basket di prodotti adatto e ad un prezzo super conveniente. La app Nordstrom Gifting ad esempio aiuta gli utenti a trovare regali belli e sorprendenti al miglior prezzo, conversando con una chatbot che utilizza l’intelligenza artificiale.

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Il driver di scelta principale è il tempo, scarsissimo, che si vuole dedicare a far la spesa. Come poter ridurre al massimo il dispendio di tempo ed energie per un’attività che si considera noiosa o addirittura snervante? Se il prezzo non conta, la marca non conta e i dettagli del prodotto non interessano, la soluzione ideale per una piattaforma che voglia rispondere a questa esigenza è quella di fornire una scorciatoia di acquisto tramite l’eliminazione totale della fase di scelta: il cliente fa una sottoscrizione e, profilato in partenza in base ad alcune caratteristiche rilevanti, non deve fare altro che aspettare la propria spesa a casa poiché il sistema, collegato al calendario dell’utente e con un sistema di machine learning potrà modulare prodotti e frequenza di spesa, in base a semplici feedback che l’utente darà di volta in volta, se avrà tempo e voglia. Esiste un esempio simile nel mondo dei viaggi: è Anywhr, che fornisce un servizio di tour operator completo, su sottoscrizione, che toglie qualsiasi tipo di pensiero relativo all’organizzazione di un viaggio. Tu fornisci delle date, Anywhr decide la destinazione e organizza alloggio, spostamenti e visite. Chiaramente perché queste soluzioni abbiano successo, è cruciale la fase di profilatura iniziale dove l’utente inserisce gusti e preferenze, intolleranze o restrizioni in genere, per cui poi il sistema possa fornire un servizio veloce e semplice ma veramente in grado di soddisfare l’utente.

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È il purchase behavior che mette al centro il brand, le marche a cui siamo affezionati. Quel tipo di acquisto che vede nel marchio una certezza, una affidabilità ed anche una certa dose di affezione ai prodotti di sempre. Per essere rilevanti in uno scenario dove la scelta del prodotto è già avvenuta per definizione (la scelta del brand non si deve compiere) può essere interessante ridurre al minimo lo sforzo e le tempistiche di ri-acquisto del prodotto desiderato. Le piattaforme di acquisto online potrebbero ad esempio sviluppare un servizio basato su una profilazione iniziale in cui l’utente comunica i propri brand preferiti. Fatto questo, non deve far altro che caricare la propria lista della spesa, o mandarla via What’s App, e la piattaforma si occuperà di fare la spesa al posto loro risparmiando la fase di ricerca del proprio prodotto preferito e ottimizzare il tempo dei consumatori. Anche Amazon con il Dash button, ha ideato un sistema per rendere estremamente facile l’ordine, reiterato, dei propri brand preferiti.

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Il grocery shopping online sta crescendo 3 volte più velocemente di quello offline (Food Marketing Institute and Nielsen “Digital shoppers”). Le vendite dei supermercati sulle piattaforme digitali rappresenterà il 20% delle vendite totali entro il 2025, raggiungendo i 100 miliardi di dollari nel mercato US (Kantar Worldpanel’s latest report The Future of E-commerce in FMCG, November 2017).

I motivi?
Consegna veloce, offerte esclusive, spedizioni, resi più semplici e disponibilità 24/7…
Anche se ancora molti consumatori preferiscono un approccio fisico al prodotto quando coinvolti in un’esperienza di shopping, gli store fisici iniziano a soffrire la presenza di un canale evidentemente più vantaggioso sotto numerosi punti di vista.

Il protagonista dello scaffale offline è indubbiamente il pack, uno dei primi touchpoint con cui veniamo in contatto con la marca. Quando cambiamo canale e ci troviamo a navigare sugli scaffali digitali, qual è il suo ruolo? Come cambia?

Se colori, slogan, call to action ci aggrediscono dallo scaffale del supermercato orientando il nostro sguardo e spesso anche le nostre scelte di acquisto, quando ci ritroviamo nel carrello digitale il packaging perde completamente la sua funzione e diventa un semplice supporto al motore di ricerca, uno scorrere di immagini che ritraggono in modo frustrante il prodotto, senza alcuna efficacia per il consumatore. Se offline il pack lo posso toccare, guardare, leggere, online posso solo “riconoscerlo” (da molto lontano).

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Per capire a fondo cosa e come può sostituire online il ruolo che il pack svolge offline, abbiamo indagato cosa ricercano i consumatori nel momento dell’acquisto e provato a immaginare azioni concrete che i brand possono iniziare ad implementare per non perdere questa preziosa occasione di contatto con i loro utenti, online.

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Il packaging, nell’universo offline, è da sempre cruciale nelle prime fasi del customer journey in cui orienta la ricerca dei prodotti e nelle fasi finali, quando uso il prodotto e lo conservo in dispensa. A differenza dell’offline grocery shopping, sulla piattaforma e-commerce non si può più contare sul packaging per attrarre e informare il cliente rispetto al proprio prodotto, mentre dall’altra parte, le fasi di uso e conservazione del prodotto sono le prime e le uniche in cui l’acquirente online entra in contatto con il packaging.

Asset customizzati che rappresentino il prodotto in modo coerente al canale.

Coinvolgere il cliente, attraverso l’utilizzo di forme, colori e visual capaci di attirare l’attenzione, coerentemente con il canale digitale. Non più solo foto che ritraggono il prodotto in ambienti asettici dunque, ma veri e propri asset visivi creati ad hoc. É quello che propone FLAVIAR, brand di bevande alcoliche, che presenta online i sapori e i retrogusti del prodotto con visual pensati ad hoc.

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Collaborare con la piattaforma, promuovendo attività e collaborazioni ad hoc

Collaborare con la piattaforma, promuovendo attività e collaborazioni ad hoc, al fine di rendere il brand maggiormente visibile rispetto alla concorrenza. Sono diversi i brand che, tramite accordi specifici, ottengono una visibilità maggiore sulle piattaforme online dei supermercati. Ad esempio nell’ e-commerce di Auchan sono Mulino Bianco, Granarolo, Citterio e Mutti le marche che campeggiano nella prima pagina. O sul sito di Carrefour, nella home è presente una sezione “magazine” dove brand come Rio Mare spiegano come preparare le migliori insalate di tonno.

Un pack ad hoc che esalti la fase di unpacking e usage

Un pack ad hoc che esalti la fase di unpacking e usage, i primi e unici momenti in cui il pack fisico viene a contatto con il consumatore durante gli acquisti online. Lavorare sul packaging per venire incontro ai bisogni emergenti dei consumatori: tendendo a mente le funzioni di imballaggio, trasporto consegna, unboxing e utilizzo del prodotto, GLOSSIER propone una confezione bubble wrap rosa con una zip ermetica: è diventata un must-have, che le giovani consumatrici la acquistano anche separatamente.

Cosa significa costruire un’identità di marca? Dare forma alla personalità del brand attraverso un linguaggio visuale ed iconografico, una comunicazione efficace o ancora il design di ogni singolo touchpoint: tutti elementi che ne determinano la percezione e la reputazione da parte del suo pubblico. Quella percezione non solo razionale ma anche profondamente emotiva ed istintiva, da cui dipenderà il gradimento e di conseguenza il successo del marchio.

L’immagine visuale non è la sola risposta però.

Come porto il mio brand sul mercato? Come raggiungo i miei consumatori? Attraverso quali canali e quali azioni? Attraverso quali forme l’identità di marca viene percepita dai suoi consumatori? Come arriva alla testa (e al cuore) degli utenti? La strategia di go-to-market è la risposta. Rispondere a queste domande significa pianificare una strategia utile a costruire una relazione con i nostri clienti. A seconda della combinazione dei fattori che si scelgono di implementare, la percezione del brand da parte degli utenti varia notevolmente e, di conseguenza, anche l’identità di marca ne risente.

L’identità di marca non è dunque il frutto (solo) della sua immagine visuale ma anche della combinazione di tutti i canali e le azioni che vengono intraprese dal brand per costruire la relazione con i propri clienti.

Le diverse combinazioni danno vita a percezioni del brand diverse e, di conseguenza, ne influenzano fortemente l’identità di marca.

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Vorwerk Folletto

L’azienda di origine tedesca sbarca sul mercato italiano nel lontano 1938 con una nuova tecnica di vendita: il modello porta-a-porta, una tecnica che ancora oggi viene largamente utilizzata per alcune tipologie di prodotti. Il valore principale che il marchio voleva trasmettere al consumatore era (ed è) la lealtà. Il brand utilizza la forza dell’economia di relazione, basata su un rapporto umano autentico, che genera un clima di fiducia positivo nei consumatori per posizionare e differenziare i propri prodotti sullo scenario competitivo. Il prodotto che vendono costa di più rispetto ai competitor e spesso è difficile da comprendere in tutte le sue funzioni o da utilizzare in tutte le sue modalità: una dimostrazione in casa, accompagnata passo passo dall’interazione con il venditore, risulta fondamentale per convincere e per colpire il target di riferimento. Di conseguenza questo genera un legame di fiducia verso il venditore e nel brand di cui è ambasciatore.

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Nestlé Brasile

La stessa strategia di vendita porta-a-porta è utilizzata dalla multinazionale Nestlè nelle principali metropoli brasiliane, la quale usa un network di micro-distributori e venditori individuali che con un carretto riescono a raggiungere i posti più inaccessibili della città. Implementando questa strategia, il marchio è riuscito a dare lavoro a moltissime donne provenienti dalle zone più povere e a vendere il proprio prodotto in zone difficili da raggiungere o del tutto inaccessibili. Inoltre vendendo cibo a basso prezzo, il brand è stato ben accolto dalla popolazione trasmettendo in loro un sentimento di fiducia e di reciproco sostegno. Un brand “vicino” a te, non solo attraverso ciò che ti comunica dunque, ma anche nella modalità attraverso la quale ti raggiunge ovunque.

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Supreme

Una delle strategie più in voga e più chiacchierata del momento è quella del “drop”. Supreme applica questo modello di vendita rilasciando nuovi prodotti ogni giovedì mattina nel suo store online e nei suoi cinque store nel mondo. Questa strategia ha generato un traffico fisico e virtuale senza precedenti, circa 1 miliardo di visualizzazioni in un drop del 2016, aumentando del 16.800% il traffico sul sito internet e creando code anche di giorni davanti ai negozi. Questa strategia affiancata ad una campagna di comunicazione che trasmette gli stessi valori di esclusività, ha permesso al brand di raggiungere questa immagine elitaria, inaccessibile ed estremamente affascinante.

L’esperienza dei tre casi studio racconta come la strategia di go-to-market, la scelta dei canali attraverso i quali raggiungere i propri clienti, le modalità di interazione con loro, la frequenza della relazione e le azioni chiave intraprese dal brand sono parte integrante dell’identità stessa del marchio. Essere un brand leale, passa attraverso la relazione umana e approfondita con chi vende il prodotto (nel caso di Folletto); brand vicini alle esigenze quotidiane, sono gli stessi che ti raggiungono ovunque (Nestlé); essere esclusivi infine, non è solo questione di oro e paillettes, ma di intelligenti strategie di vendita (Supreme).

Come raggiungo e parlo ai miei clienti, è il cuore stesso della mia identità di marca.

Irene Serafica
Strategic Design Lead

Quando ha mosso i suoi primi passi 20 anni fa, la birra artigianale italiana si è dovuta confrontare principalmente col vino. In un iniziale tentativo di competizione diretta, ne ha preso in prestito metodi e codici visivi: bottiglia formato 75cl, visual ispirati all’anima più rurale del mondo vitivinicolo, posizionamento di prezzo e occasioni di consumo proprie del vino.

Solamente negli ultimi cinque anni si è assistito a un deciso cambio di direzione: il segmento artigianale si è allontanato dal posizionamento artisanal e tradizionale, per muoversi verso un territorio più craft e contemporaneo. Gradualmente si è appropriato di alcuni linguaggi della grande industria birraria, dall’uso di bottiglie 33cl alla maggior immediatezza nella comunicazione, dalla semplificazione del packaging al tentativo di posizionamento in occasioni di consumo più quotidiane. Anche gli stili birrari e quindi l’offerta di prodotto hanno seguito lo stesso shift. Inizialmente la birra artigianale italiana era associata a una proposta spesso complessa e ricca, mentre oggi propone anche stili più semplici e accessibili come le lager – prima relegate al solo mondo industriale – o influenzati da trends contemporanei come quello delle IPA Americane.

La normalizzazione della birra artigianale è destinata quindi a continuare. Da più fronti un numero sempre maggiore di prodotti e brands arriveranno a occupare il territorio di mezzo fra artisanal e industria: vedremo sempre più birre industriali simil-craft e sempre più birrifici con un’impostazione industriale.

Questo middle ground si ingrandirà, diventando probabilmente la norma, a discapito dei piccoli produttori artigianali di impronta artisanal e a leggera erosione della birra industriale.

Un esempio di questo passaggio nel mercato UK è sicuramente rappresentato da Camden Town Brewery. Microbirrificio nato, come tanti a Londra, sotto un arco della ferrovia, con un piccolo impianto e un team ristretto ma che fin dagli esordi ha dimostrato un forte orientamento al consumatore. La creazione di una taproom dove poter vendere direttamente i propri prodotti e far vivere l’esperienza del proprio brand, una identità visiva basata su una immediatezza e semplicità che urlano attenzione, un prodotto di punta che con gran coraggio riscopre la lager di tutti i giorni e una mentalità imprenditoriale che ha portato a indire una campagna di equity crowdfunding di successo e infine a vendere il business ad AB Inbev.

Nei prossimi anni, la vera crescita verrà da coloro che saranno in grado di rendere la birra craft, e quindi quella che per il consumatore medio non si definisce né industriale né artisanal, più accessibile in termini di distribuzione, prezzo ma anche comunicazione e linguaggi visivi.

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Anna Managò

Un passato nei team marketing e innovation di Carlsberg Italia e Danimarca, prima di approdare a Londra dove dopo tre anni come brand strategist presso Kantar Added Value ha fondato ByVolume, una creative agency specializzata nel food and beverage. Esperta di prodotto per passione, da anni partecipa come giudice in diverse competizioni birrarie fra cui Birra dell’Anno in Italia, International Beer Challenge in UK, World Beer Cup in USA.

Si dice che il pesce più fresco si trovi a Milano e che la sua casa sia il mercato ittico milanese. Per i privati apre le porte il sabato mattina dalle 9.30, ma per respirarne l’aria autentica, bisogna presentarsi prima delle 4. E magari, farsi accompagnare da un Virgilio d’eccezione, Enrico Buonocore, creatore e gestore del ristorante Langosteria 10.

Il mercato del pesce di Milano è il paradiso dei ristoratori, tra i più moderni a livello europeo e il più importante mercato di prodotti ittici in Italia per qualità, offerta e freschezza. Ogni anno passano di qui 25mila tonnellate di pesce: pescato o d’allevamento, affumicato, congelato.

Se vuoi essere sicuro di avere la materia prima migliore, non puoi mancare all’appuntamento. E non manca di sicuro Enrico, che per il suo ristorante sceglie personalmente tonno e scampi, gamberi, ostriche e aragoste. Insomma, tutto il meglio che il mare può offrire.

Sembra essere di casa: si muove con familiarità tra le casse di pesce appena scaricato, mostrandone le qualità e raccontando le diverse applicazioni in cucina. Conosce tutti Enrico, dagli addetti del mercato ai pesci. L’ampiezza dell’offerta e le infinite varietà, le diverse caratteristiche e provenienze, il rispetto per la materia prima, le tipologie di cottura a cui i diversi esemplari sono destinati, appartengono ad un bagaglio di esperienze acquisite con costanza e determinazione.

È la passione per la cucina, nata da bambino e maturata e affinata negli anni, unita alla dedizione con cui gestisce l’attività commerciale, che ne ha determinato il successo. Perché funziona se fatta con il cuore. Una passione che traspare dalle sue parole mentre ci spiega come riconoscere il pesce fresco o come abbinare il vino ai suoi piatti, talmente palpabile che ci sembra quasi di sentirne il profumo.

Vi abbiamo incuriosito? Scoprite la storia Made with Heart di Enrico e la sua passione per il pesce, nel video de Il Sole 24Ore. Buona visione!

Zinc è un bar. Ma non è solo un locale, è un laboratorio dove sperimentare nuovi cocktail, partendo da materia di prima qualità, possibilmente fatta in casa. L’alchimista è Enrico Contro, in arte Frog. Che ci racconta che il bar prende il nome dal bancone in zinco e si pronuncia alla francese, ed è anche l’elemento della tavola periodica che ricorre nell’immagine del locale.

Una sorta di laboratorio quindi, in cui tutti i bartender possono proporre le proprie idee: Frog ha cercato di circondarsi di professionisti con punti di vista precisi e diversi dai suoi, con un guizzo creativo e passione per il lavoro e per lo studio. Così come succede in agenzia: la proposta giusta, quella più sorprendente, può arrivare dal professionista con esperienza come dal giovane designer alle prime armi.

Frog parla di semplicità, di cocktail dalla struttura semplice ma per questo non banale, che non richiedono mix complessi di sapori che a stento riesci ad identificare. Esattamente come nel branding: un’idea semplice è forte, da sola, non richiede grandi spiegazioni perché può essere raccontata in due parole.

Le ispirazioni sono ovunque, serve molta ricerca: un esempio su tutti Dale DeGroff un pioniere nell’arte del cocktail che verso la fine degli anni 80 ha sperimentato un approccio gastronomico per ricreare i grandi cocktail classici. E che ha ricominciato a fare i prodotti in casa: in questo modo ogni bar ha la sua linea, il suo modo di fare da bere. Proprio come fa Frog allo Zinc.

Di lui Oscar Quagliarini – “bad boy della miscelazione italianau0022 – dice: u0022lui mi ha iniziato allo studio, all’attenzione sul cliente, alla velocità di esecuzione del drink, all’utilizzo di prodotti di qualità e di frutta spremuta al momento, alla passione per questo lavoro.u0022

L’empatia con il cliente è fondamentale: saper ascoltare, capire l’umore e con un po’ di fortuna aiutare a cambiare verso a una giornata no.

Secondo te, qual è il cocktail preferito da Frog?

Scopri la sua storia Made with Heart.

L’idea di dar vita al Pastificio dei Campi nasce nel 2007, quando il mercato della pasta non era ancora così orientato all’innovazione. Iniziava certamente a svilupparsi quello che possiamo definire il macro-trend dei prodotti bio e degli alimenti premium… ma pensare che la pasta, il più popolare ed economico dei prodotti italiani, potesse diventare qualcosa di esclusivo, da degustare e apprezzare quasi fosse un buon vino, era un azzardo”.

Di Martino inizia a raccontare la sua storia, sottolineando fin da subito che costruire un business sostenibile attorno ad una pasta premium non sarebbe stata impresa facile.

La mia famiglia produce pasta da sempre, in uno dei territori che grazie alla pasta si sono fatti conoscere nel mondo: Gragnano. Ed è da qui che sono voluto partire per perseguire il mio intento: produrre una pasta di altissima qualità. Il primo passo è stato quello di rivolgere a me e ai miei collaboratori una semplice domanda: come posso, come possiamo fare meglio il nostro lavoro?”.

Ascoltare innanzitutto, chiedendo a chi la pasta la conosce in ogni suo dettaglio.

Agricoltori, mugnai, e pastai che lavorano per la mia azienda hanno, come me, la pasta nel DNA. Conoscono Gragnano e i suoi campi da generazioni, nonché la pasta meglio di chiunque altro. La recente ascesa dei mercati internazionali e la necessità di produrre su larga scala, hanno però allontanato le attuali tecniche di produzione dagli antichi metodi di lavorazione, standardizzando la tipologia dell’offerta. Il mio intento era proprio quello di recuperare questo sapere e farlo diventare una nicchia di mercato, trovando il giusto equilibrio tra sapienza e innovazione, tra qualità e attualità”.

Qual è dunque il segreto della pasta perfetta?

È necessario che ciascun attore della filiera produttiva, da semplice esecutore di un piano tecnico di produzione, diventi protagonista, trasferendo tutto il proprio know-how in ogni confezione di pasta. Il territorio, La raccolta, lo stoccaggio, la preparazione dell’impasto, la trafila, l’essicazione, l’imballaggio sono tutti fattori che giocano su un sottile equilibrio e noi cerchiamo tutti di ottimizzarne ogni passaggio, pur sapendo che questo comporta un inevitabile aumento dei costi di produzione”.

La sfida si fa interessante: una pasta premium ha mercato?

Ovviamente sapevamo che per rendere questi costi sostenibili era indispensabile posizionarsi e comunicare in un certo modo. Abbiamo quindi utilizzato lo stesso approccio usato in precedenza: come posso migliorare il design del mio prodotto? come posso comunicarne la qualità? come posso creare un’esperienza di marca davvero coinvolgente?u0022

Dal prodotto alla brand experience, passando per il design.

Per commercializzare la pasta è stata quindi progettata una confezione a forma di cubo in cartoncino, con finestre in plastica che permettono di riconoscerne immediatamente la forma. Il cubo risulta molto funzionale al trasporto e alla conservazione della pasta, perché lo protegge dall’umidità e può essere riposto ovunque. Allo stesso modo è possibile richiuderlo una volta presa la dose necessaria, senza che la confezione si rompa e il contenuto cada a terra. Inoltre nel pensare la confezione ideale siamo partiti dalle necessità degli chef, che conservano la pasta nei cassetti; in questo contesto il cubo con il prodotto visibile dall’alto è la soluzione più razionale e conveniente.u0022

CBA Insight Pasta reloaded pack

Il cubo è inoltre un ottimo mezzo di comunicazione. Le sue facce, non solo vengono utilizzate per comunicare chi sono gli attori della filiera, ma anche per permettere ai consumatori di visitare il luogo di origine del prodotto stesso, attraverso un sistema di tracciabilità. Accedendo al sito del Pastificio dei Campi e inserendo il codice prodotto è infatti possibile conoscere il campo in cui è cresciuto il grano acquistato, il momento della semina, il giorno in cui si è fatto il raccolto, il silo in cui il grano è stato conservato per tutto il periodo fino alla macinazione. E ancora, il mulino in cui il mugnaio ha macinato quel grano per farlo diventare semola di grano duro, il giorno in cui è stato consegnato al Pastificio dei Campi e il giorno in cui la semola è diventata pasta, grazie al lavoro del pastaio, e il giorno in cui la pasta è stata riposta nelle confezioni dal pacchettista”.

Tutta la vita di un pacco di Pasta dei Campi viene così rintracciata e i protagonisti di questa storia hanno finalmente un volto e un luogo preciso. Ma ci sarà un lieto fine?

La Pasta dei Campi è oggi venduta in selezionate gastronomie e nei più prestigiosi food market italiani e stranieri. In Italia la si trova alla Rinascente di Milano, alla gastronomia Roscioli a Roma, all’Enoteca Di Leva di Gragnano. Fuori dai confini nazionali è disponibile al Bon Marché di Parigi, da Harvey Nichols a Londra, da Mmmmh a Bruxelles, da Isetan a Tokio o da Pusateri’s a Toronto. Alcuni chef di altissimo livello l’hanno scelta per il proprio ristorante: Gennaro Esposito della Torre del Saracino, Andrea Berton del Trussardi alla Scala, Libera Iovine del Melograno di Ischia, Alessandro Boglione del Castello di Grinzane e altri ancora”.

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Giuseppe Di Martino ci ha mostrato come avere una visione e perseguirla con tenacia siano i presupposti necessari per il successo. Il resto lo hanno fatto la capacità di raccontare una storia interessante e l’attenzione ai bisogni del consumatore nel progettare il Pack di prodotto. E lieto fine sia, con la speranza di sentire presto altre storie come questa, il cui protagonista, perché no, potrebbe essere proprio uno di questi studenti. Staremo a vedere, nel frattempo ringraziamo Giuseppe per questa interessantissima lezione.