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“Che strana questa “M”… sembra rotta”. A chi non è mai capitato di vedere lettere con questi strani intagli e di pensare che fossero errori? E invece no, questi intagli nelle lettere sono voluti e non sono affatto degli errori. Si chiamano ink trap (letteralmente, trappole per inchiostro) e sono uno degli esempi più pratici della concretezza del type design.

La loro funzione tecnica è di migliorare la resa di stampa delle lettere in condizioni non ottimali, quali l’alta velocità di produzione o la stampa su carta di scarsa qualità. Le ink trap vengono applicate negli angoli acuti delle lettere (come questa “M” appunto, nelle giunzioni angolari dei suoi tratti), ovvero in quei punti dove l’inchiostro si concentra maggiormente e tende ad accumularsi, deformando la lettera.

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Le ink trap servono a compensare questo fenomeno, creando un intaglio nella lettera che permette all’inchiostro di fluire in esso (mettendolo in trappola, appunto) e restituendo una lettera più simile a quella che si intendeva stampare.

Ma quando è cominciata questa pratica? A chi è venuta in mente? Difficile rispondere con certezza assoluta. Il modo migliore per capire questo metodo è analizzare alcuni casi, partendo dagli esempi più famosi, per arrivare alle pratiche più sperimentali di oggi.

Uno degli casi più conosciuti è il Bell Centennial, disegnato da Mattew Carter dal 1976 su commissione di AT&T. La richiesta era di progettare un nuovo carattere a partire dal loro leggendario Bell Gothic. L’obiettivo, quello di risolvere i problemi che quest‘ultimo causava nella stampa degli elenchi del telefono. Il Bell Gothic funzionava piuttosto bene, finché gli elenchi venivano stampati in letterpress, con le macchine Linotype. Ma quando la composizione delle pagine passò alla tecnologia della fotocomposizione, tutto cambiò. Questo nuovo metodo, con una successiva stampa più veloce e quindi meno precisa, metteva in luce il fatto che il Bell Gothic non fosse disegnato per quella tecnologia. Per un po’ di tempo Carter adattò il Bell Gothic correggendo alcuni particolari e modificando il processo di stampa. Ma tutto ciò rese evidente la necessità di un carattere progettato per questa nuova tecnologia, molto più veloce e meno precisa. Nasce così il Bell Centennial, che come da richiesta riprende il disegno del Bell Gothic, modificando i tratti e le aperture delle lettere, ma sopratutto incorporando le ink trap.

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Nonostante il Bell Centennial sia uno degli esempi più famosi, non è da considerarsi il primo carattere sviluppato con questa tecnica. Precedentemente già altri type designer avevano riscontrato problematiche analoghe, studiando soluzioni per risolverle.
Uno di questi è Francesco Simoncini, nostro conterraneo, che sul finire degli anni ‘50 studia le criticità causate dalla fotocomposizione che lo portano a creare un metodo brevettato ufficialmente nel 1963: il Metodo Simoncini.

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Con questo metodo, anche Simoncini si cimenta nel disegno di una carattere per la stampa di elenchi telefonici e negli anni ’60 disegna per SEAT Pagine Gialle il Delia, un carattere piuttosto sperimentale per l’epoca, che utilizza ampiamente il concetto di ink trap e tratti stencil.

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Rimanendo nell’ambito degli elenchi telefonici, sul finire degli anni ’90 SEAT Pagine Gialle commissiona a Piero De Macchi un nuovo carattere, più moderno ed efficace, in grado di salvare spazio verticale in stampa, mantenendo un’alta leggibilità a corpi piccoli. Nasce così il Nomina, un lavoro gigantesco durato diversi anni, che porta alla produzione di 36 serie complete di pesi singoli. Anche qui, in grande evidenza, l’utilizzo di ink trap.

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Ma questa tecnologia non ha interessato solo l’ambito della stampa. Anche la riproduzione delle lettere sui vecchi schermi televisivi produceva problematiche analoghe. In questo caso, le trappole non riguardano l’inchiostro ma la luce. Per questo prendono il nome di light trap. L’idea di base è la medesima, poiché in questi schermi l’immagine sfoca a causa dell’effetto di sfumatura luminosa, che tende a ingrandire i tratti bianchi, e delle distorsioni delle linee di scansione, che tendono a enfatizzare i tratti orizzontali.
La prima soluzione a questo problema viene dalla rete televisiva americana CBS, che fino a quel momento utilizzava il News Gothic per la comunicazione a schermo. Per migliorarlo, il designer Rudi Baas, presso il Dipartimento di Arti Grafiche della CBS, dà vita ad una variante dove compaiono le light trap, ovvero intagli tondi negli angoli delle lettere. Questo progetto prende il nome di CBS News 36.

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Recentemente, il designer Nick Sherman ha creato un revival di questo carattere chiamandolo Rudi, in onore del designer che ha creato per primo questa intelligente soluzione.

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Questo contesto di ottimizzazione della forma delle lettere tramite intagli ha portato a progetti molto sperimentali come il Minuscule di Thomas Huot-Marchand, disegnato nei primi anni 2000. La sua creazione è ispirata dalle teorie dell’oftalmologo Emile Javal e dalla sua “teoria delle stampe compatte”.

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Il carattere è disponibile in cinque versioni, tutte ottimizzate per dimensioni di 6, 5, 4, 3 e 2 punti. Il design evolve progressivamente man mano che le dimensioni diminuiscono: l’interlinea e l’altezza delle minuscole aumenta, il contrasto diminuisce, compaiono le ink trap e il design viene semplificato. La versione per i 2 punti stampa è la più particolare: a questa dimensione, secondo Javal, prestiamo maggiore attenzione alla differenza delle forme delle lettere. Di conseguenza, la particolarità di ciascun segno viene esagerata e i dettagli secondari vengono eliminati. Le controforme delle minuscole si squadrano, fino alla o, che diventa un quadrato di controforma pura.

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Il fascino delle ink trap rimane intatto ancora oggi, benché ormai la stampa sia quasi sempre ad alta definizione e gli schermi abbiano una qualità visiva ottima, rendendole di fatto inutili a livello tecnico. Ma la personalità che donano alle lettere è innegabile: molti designer decidono di progettare caratteri con ink trap molto visibili e di forme particolari. Vengono perfino utilizzate più spesso per i tagli da titolazione, quindi per un utilizzo a corpi grandi, dove sarebbero tecnicamente ancor più inutili, ma dove possono essere più evidenti e visibili.

In questo contesto è possibile citare diversi esempi, come ad esempio il Brevier di Riccardo Olocco per CAST. Brevier è il nome che veniva dato dagli stampatori ai caratteri per gli 8 punti stampa. È caratterizzato da un disegno all’apparenza geometrico, ma che nasconde caratteristiche rinascimentali.

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Il Whyte Inktrap, progettato da Fabian Harb per Dinamo, è la versione con ink trap del celebre Whyte, uno dei grotteschi di punta della type foundry. Dello stesso carattere è stata sviluppata anche una versione variable, dove le ink trap diventano un parametro regolabile da 0 (assenti), al valore 1 (molto pronunciate).

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La personalità audace del carattere è stata adottata anche da Cba per lo sviluppo dell’identità visiva di Lynfa, la nuova Corporate Academy del Gruppo Sella.

Un altro uso interessante delle ink trap si può apprezzare nel carattere AVU Custom, progettato da Heavyweight Type per l’Accademia delle Belle Arti di Praga. La nuova identità prevedeva la progettazione di un carattere che mostrasse la forma del cuore, già presente nel logo precedente, e la incorporasse nella nuova comunicazione, a partire dal logo.

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La soluzione è stata di includere la forma del cuore come ink trap all’interno delle lettere, in modo da non alterare eccessivamente la neutralità del carattere di base (una variante dell’Helvetica).

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Oggi più che mai le ink trap rappresentano un territorio di sfida per i designer, che grazie a questa tecnica possono sbizzarrirsi e trovare nuove soluzioni, più o meno sperimentali, e, perché no, anche a divertirsi, nascondendo qualche easter egg, come dimostra Collletttivo con Sneaky Times.

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Davide Molinari, Senior Visual Designer

È notte, stai guidando verso casa. Il buio riempie la strada davanti a te. Non sei di questa zona e cerchi un cartello con un’indicazione a te familiare. Finalmente lo trovi. I tuoi fari abbagliano le lettere che diventano tutte uguali e non riesci a distinguere le informazioni. Sbagli strada. Continui a guidare. Può sembrare la classica scena di un thriller, ma in realtà è un semplice caso di cattiva segnaletica. Perché in questo caso, l’utilizzo di un carattere tipografico corretto avrebbe potuto diminuire l’effetto di sfocatura delle lettere dovuto all’abbagliamanto e tu non avresti sbagliato strada.

La segnaletica è uno dei campi dove la tipografia mostra il suo aspetto più analitico e pratico, dove la scelta di un carattere corretto è basata su principi semplici ma estremamente importanti. Innanzitutto deve avere un’ottima leggibilità delle singole lettere (legibility), quindi caratteri sans lineari di natura umanistica, come ad esempio il Frutiger, si prestano bene a questo uso.

Questi caratteri presentano lettere con controforme aperte, che impediscono alla lettera di “chiudersi” quando guardata velocemente o in condizioni di illuminazione scarsa. In un carattere grottesco come l’Helvetica, invece, le lettere minuscole c – e – o, possono risultare uguali alle condizioni indicate sopra, proprio a causa delle controforme chiuse.

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La legibility passa anche attraverso le forme specifiche delle singole lettere. In particolare i caratteri adatti alla segnaletica sono quelli che riescono a distinguere correttamente tutte le lettere. Alcuni caratteri come il Futura, dato il loro disegno pulito e geometrico, presentano alcune lettere (e numeri) che si assomigliano molto, e in caso di lettura veloce potrebbero essere confuse.

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Anche la leggibilità delle parole e dei testi composti con questi caratteri (readability) è fondamentale. Entrano in gioco concetti fondamentali come la spaziatura tra le singole lettere, che garantisce la leggibilità del messaggio anche a diverse angolazioni e in velocità.

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Velocità, un concetto chiave quando si affronta un progetto di segnaletica. Tutti questi parametri infatti sono fondamentali quando la velocità del soggetto che legge è massima e quindi il tempo di lettura del messaggio è minimo. Riducendola, queste regole possono essere meno stringenti e la scelta del carattere tipografico può essere più aperta. Proviamo quindi a vedere diversi esempi di caratteri applicati ai progetti di segnaletica, partendo da quelli dove il soggetto legge il messaggio a velocità massima, passando poi ad esempi a velocità media, per finire con progetti a velocità minima.

Velocità massima

In questo contesto, il caso migliore da esaminare è certamente la segnaletica stradale, ovvero tutti i cartelli che troviamo sulle strade e sopratutto sulle autostrade. In questo caso parliamo di caratteri tipografici studiati appositamente per questo scenario, ovvero velocità molto sostenute e condizioni di lettura a volte sfavorevoli come buio e pioggia. L’esemio più classico è quello di cartelli delle autostrade americane, dove i celebri cartelli verdi riportano le informazioni impostate in bianco con il carattere Highway Gothic.

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Progettato da Ted Forbes per FHWA (Federal Highway Administration), Highway Gothic è una famiglia di 6 font, nominati “A”, “B”, “C”, “D”, “E”, “F”, dove “A” è il più stretto ed “F” il più largo. Si può notare fin da subito come in questo caso le regole precedentemente menzionate siano rispettate, sopratutto riguardo alla spaziatura generosa tra una lettera e l’altra.
Tuttavia, questo carattere presenta una natura delle lettere piuttosto spigolosa e le controforme interne delle lettere sono molto piccole (soprattutto nelle lettere “a” ed “e” minuscole) che ne compromette la leggibilità singola (legibility). Per questo motivo, in tempi piuttosto recenti FHWA ha commissionato il progetto di un nuovo carattere che risolvesse queste problematiche.

Clearview è una carattere lineare disegnato su base puramente umanista, con generose controforme aperte, lettere minuscole grandi rispetto alle maiuscole (x-height), tratti curvi dolci e un’ampia spaziatura tra le lettere. Sembra il carattere perfetto per sostituire il più spigoloso predecessore, ma qualcosa si intoppa nel processo. Per motivi non del tutto chiari, il processo di sostituzione viene interrotto e ora nelle autorstrade americane sono presenti entrambi i caratteri sui cartelli.

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La riconoscibilità visiva di Highway Gothic è innegabile e per questo motivo è stato anche fonte di ispirazione per i type designers. Interstate, carattere progettato da Tobias Frere-Jones, è una reinterpretazione di Highway Gothic. Il suo allure legato alla velocità ha spinto Lamborghini a sceglierlo come carattere corporate.

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Ritornando al tema iniziale, nel vecchio continente la linea progettuale per la segnaletica delle autostrade viene aperta dal Regno Unito intorno all’inizio degli anni ‘60, con l’introduzione del carattere Transport. Progettato in due pesi, Medium e Heavy, questo carattere presenta lettere dalle controforme generose e dalla spaziatura abbondante. Questo disegno delle lettere, oltre a rendere il carattere molto riconoscibile, lo rende anche leggibile sia in termini di legibility che di readability. Da questo carattere verranno progettate delle varianti utilizzate da altri paesi.

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Uno dei paesi che utilizza una variante del carattere Transport è proprio l’Italia, che per la segnaletica stradale e autostradale, a partire dagli anni ‘80, ne crea una versione lievemente più bold. Il nome di questo carattere è Alfabeto Normale e viene utilizzato in combinazione con un secondo carattere, Alfabeto Stretto, disegnato appositamente a partire dal normale per rispondere alle esigenze di scrittura di informazioni più lunghe e complesse.

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In Germania invece, il carattere per la segnaletica stradale è il celebre DIN 1451, nelle tre larghezze Engschrift (condensato), Mittelschrift (normale) e Breitschrift (esteso) . Viene catalogato come sans “realista” perché le sue forme, pur essendo essenziali e quasi di stampo geometrico, sono assolutamente leggibili e ben distinguibili. Non a caso è il carattere dell’isitituto tedesco per la standardizzazione (Deutsches Institut für Normung), dal cui acronimo viene appunto il nome DIN.

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Le forme pulite ed essenziali di questo carattere lo hanno elevato ad una dimensione di notorietà tale che il suo utilizzo non è stato solo confinato alll’utilizzo di segnaletica stradale. È stato infatti utilizzato per moltissimi progetti di vario tipo, sopratutto grazie ai numerosi restyiling avvenuti negli anni. Il più celebre è certamente FF DIN, del 1995, ad opera di Albert-Jan Pool. Questo carattere, nel corso degli anni successivi, grazie anche a molti altri type designers, è diventata una super family contenente un’infinità ai variabili, tra le quali una versione rounded, una slab, una stencil, fino ad arrivare ai giorni nostri, con le versioni variable.

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Velocità media

Diminuendo velocità di lettura, è possibile notare come anche i caratteri scelti siano differenti. Non essendoci le condizioni di lettura estreme della “velocità massima”, i caratteri utilizzabili sono molti di più

Uno dei campi analizzabili in questo contesto è quello dei progetti di segnaletica delle metropolitane. Il caso più emblematico e famoso è probabilmente quello della metropolitana di Londra, dove il carattere utilizzato è il Johnston, dal nome del suo creatore Edward Johnston, che lo disegnò nel 1916. Dal punto di vista del disegno delle lettere, il Johnston è classificabile come carattere umanista. Queste richiamano infatti le forme e i tratti della scrittura a mano date le controforme aperte e facilmente leggibili. Le maiuscole poi, prendono ispirazione dalle maiuscole dell’Impero Romano. Oltre ad essere uno dei primi caratteri tipografici usati in maniera specifica per la segnaletica è anche uno dei primi corporate typeface, ovvero un carattere progettato ad hoc per un’istituzione e la sua identità visiva.

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Anche il celebre Eric Gill, in quanto allievo di Johnston, partecipò al disegno di questo carattere. È facile notare infatti come l’aver lavorato a questo progetto gli sia stato d’ispirazione nel momento di disegnare il suo Gill Sans.

Volando oltreoceano è possibile analizzare un altro caso iconico: la segnaletica della metropolitana di New York. Un progetto di metà anni ‘60 che certamente ha fatto storia, opera di un duo di designer che ha in qualche modo dettato le linee guida per questo tipo di progetti. Parliamo di Massimo Vignelli e Bob Noorda, che in quegli anni formavano lo studio Unimark. Per la segnaletica della metropolitana di New York il carattere utilizzato è l’Helvetica e questo è certamente uno dei suoi usi più famosi. Come accennato in precedenza, la forma grottesca delle lettere di Helvetica (quindi con controforme che tendono a richiudersi) non è la più indicata per un progetto di questo tipo. Tuttavia, con una buona spaziatura delle lettere, anche Helvetica può risultare una scelta adeguata.

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Tornando nel vecchio continente, in Italia, più precisamente a Milano, il progetto di segnaletica per la metropolitana è seguito proprio da Bob Noorda. Anche in questo caso parliamo di un progetto iconico che è valso al designer il prestigioso riconoscimento del Compasso d’Oro. Lo spirito del progetto è il medesimo di quello americano, ovvero la necessità di semplificare un sistema complesso, riducendo il numero di variabili tipografiche. E anche in questo caso è l’Helvetica a farsi carico di questa semplificazione. Più precisamente, Noorda utilizza una sua personale versione dell’Helvetica, che chiama con il suo nome: Noorda. Questa versione modificata presenta lettere minuscole con ascendenti e discendenti accorciate e una spaziatura tra le lettere ricalibrata. Questo ha permesso di sfruttare al meglio lo spazio nelle celebri bande orizzontali colorate che riportano il nome delle stazioni della metropolitana milanese.

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In questo contesto è giusto menzionare anche il progetto per la metropolitana di Parigi. Anche in questo caso è stato disegnato un carattere ad hoc, specifico per questo tipo di utilizzo: il Parisine. Disegnato da Jean François Porchez nel 1996, questo carattere tiene in forte considerazione le regole prima descritte. È infatti di stampo umanistico, con controforme delle lettere aperte, una generosa altezza delle minuscole rispetto alle maiuscole e una buona spaziatura. In aggiunta, le lettere hanno una curvatura dolce che aiuta piacevolmente la lettura e lo rende molto riconoscibile. Nel caso del Parisine, parliamo di una famiglia di caratteri molto estesa, composta da svariati pesi e larghezze.

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Nel contesto di lettura in velocità media si possono menzionare anche i progetti di segnaletica degli aeroporti dove, alcuni dei più importanti, utilizzano un solo carattere ben specifico: il Frutiger di Adrian Frutiger. Aeroporti di città come Parigi, New York, Amsterdam e Londra, utilizzano tutti il Frutiger per la segnaletica interna. Non è un caso che Parigi venga citata per prima. Questo carattere infatti è stato disegnato inizialmente su commissione per il progetto di segnaletica dell’aeroporto Charles de Gaulle a Parigi nel 1968. Anche questo carattere è di natura umanistica, con controforme aperte e lettere ben distinguibili. Il risultato finale ha un grandissimo successo, tanto da superare i confini degli aeroporti ed essere (ancora oggi) uno dei caratteri più utilizzati al mondo.

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Il progetto di segnaletica per l’aeroporto JFK di New York (sempre con il Frutiger) ha anche ottenuto un ruolo da protagonista al cinema, grazie al film di Steven Spielberg “The Terminal”. Per le riprese del film, è stata fondamentale la collaborazione tra il regista e il designer che si è occupato del progetto di segnaletica, Paul Mijksenaar.

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In questo contesto è possibile trovare altri esempi interessanti, come i progetti di segnaletica per gli aeroporti di Colonia-Bonn e Vienna, entrambi progettati da Ruedi Baur.

Il primo vede l’utilizzo di una versione custom del carattere Simple (progettato dallo studio NORM). Un carattere di natura geometrica, molto pulito e razionale, ma con una lieve stondatura nella terminazione delle aste che lo rende umano e amichevole.

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Nel secondo caso, la segnaletica dell’aeroporto di Vienna prevede l’utilizzo del Fedra, una delle super Family di caratteri più estesa e completa mai progettata. In particolare, in questo progetto viene usata la versione sans del Fedra, comprensiva anche di una variante “pixel” studiata per i messaggi riprodotti dagli schermi LED che riportano le informazioni dei voli ai diversi gate.

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Velocità minima

È il momento di ridurre la velocità di lettura. Passiamo quella minima, ovvero un ritmo da passeggiata. In questo contesto i progetti di segnaletica presentano caratteri più espressivi, quindi non solo sans serif lineari.

Come primo esempio è possibile citare il progetto di segnaletica per il Giubileo del 2000. Per le strade di Roma, nell’anno della celebrazione, è stato sviluppato un progetto di segnaletica basato sull’utilizzo di un carattere disegnato ad hoc. Si tratta del Capitolium, progettato da Gerd Unger. Si nota da subito la sua particolarità in quanto carattere serif, in un ambito in cui questo tipo di caratteri non viene spesso utilizzato. Bisogna però sottolineare che Unger è riuscito a creare un carattere al tempo stesso elegante e molto leggibile. Questo perché le grazie che Unger ha previsto sono accennate quanto basta per donare un’eleganza classica in linea con il contesto del progetto. In aggiunta, il contrasto non è eccessivo, l’altezza delle minuscole è molto generosa e la spaziatura tra le lettere è più che adeguata. 

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Rimaniamo in Italia, più precisamente a Bologna, per osservare il progetto di segnaletica del MAST (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia) progettato dallo studio Tassinari/Vetta. Anche in questo caso, è stato progettato un carattere ad hoc, l’omonimo MAST disegnato da Jonathan Pierini, sia per la segnaletica che l’identità stessa. Si tratta di un carattere grottesco molto elegante e pulito, senza contrasto visibile.

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La vera particolarità di questo carattere è nelle sue varianti display, che vengono caratterizzate per identificare le diverse attività presenti nella struttura, creando delle vere e proprie identità visive per ciascuna di esse.

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Voliamo oltre oceano, di nuovo a New York, per parlare di un altro progetto di segnaletica: quello per i pedoni. Non è solo la metropolitana ad aver bisogno di un sistema di navigazione, ma anche la città stessa, nei suoi percorsi tra le infinite strade che la attraversano. Per questo progetto lo studio Pentagram (con il supporto di CityID e altri studi) ha realizzato un interessante sistema di mappe che mostra tutto ciò che è raggiungibile in 5 minuti percorsi a piedi, la cui particolarità è quella di essere ruotate nel senso di lettura di chi le legge, non quindi secondo i punti cardinali.

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Il carattere utilizzato è nuovamente Helvetica (nella versione Neue, meno rigida e meglio spaziata dell’originale), riprogettato in una variante chiamata DOT (acronimo per Department of Transportation), nella quale i puntini nelle lettere minuscole (come la i) e nei segni di interpunzione, vengono arrotondati. In accompagnamento al carattere sono state progettate anche tutte le icone seguendo la struttura e le curve del carattere.

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Siamo giunti alla fine di questo percorso, viaggiando a diverse velocità e con diversi tempi ed esigenze di lettura. Ciò che è chiaro da questi esempi è che la segnaletica è una campo molto complesso e profondamente analitico, dove il graphic design gioca un ruolo fondamentale nell’organizzazione delle informazioni e dove l’obiettivo finale è indicare la strada giusta, ma anche, perché no, raccontare qualcosa in più. 

Ricercando e utilizzando, sempre e comunque, il giusto carattere.

 

Davide Molinari, Senior Visual Designer

Questa storia inizia nei primi anni ‘30 del Novecento, un periodo complicato e ricco di contrasti. Grandi traguardi scientifici, come la scoperta del neutrone, vengono eclissati dall’avvicinarsi di una nuova guerra, che avrebbe cambiato il mondo. Sono anni importanti anche in ambito tipografico, nascono infatti pietre miliari come il Gill Sans di Eric Gill, il Times New Roman di Stanley Morison e il protagonista di questo racconto: l’Albertus di Berthold Wolpe.

Per capire la genesi di questo carattere è utile inquadrare il suo creatore, Berthold Wolpe, uno dei designer più influenti del suo tempo. Nato in Germania, diventa allievo di Rudolph Koch (autore di famosi caratteri come il Kabel), con il quale coltiva la sua passione per le lettere e l’incisione. Costretto a emigrare per via delle sue origini ebree, è a Londra che Wolpe trova la sua dimensione come graphic e type designer. In particolare, è l’incontro con Stanley Morison di Monotype a sancirne la consacrazione. Morison nota le incisioni fatte da Wolpe e lo convince a trasformarle in un carattere per la stampa. Il resto è storia.

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L’Albertus (da Albertus Magnus, frate dominicano e filosofo tedesco) è un carattere con una forte personalità, le cui forme, proporzioni e contrasti derivano chiaramente dall’incisione e dal rigore tedesco, ma riescono a comunicare anche un certo stile e allure britannico. Come ricorda Jonathan Pelham (per molti anni collega di Wolfe), l’Albertus riesce a far convivere diverse identità dentro di sè: moderno e vintage, rigidamente formale ma vagamente eccentrico, folcloristico ma allo stesso tempo empirico.

Delle caratteristiche uniche di questo carattere se ne innamora la stessa Londra, patria adottiva di Wolpe, che lo utilizza ancora oggi nello stemma e nella segnaletica stradale della City e del distretto di Lambeth (dove è vissuto Wolpe fino alla sua morte, nel 1989).

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Rimanendo in terra inglese, l’Albertus è riuscito a stregare anche la squadra di calcio del Liverpool, che utilizza una versione lievemente modificata del carattere per il suo stemma e per il famoso adagio “You’ll Never Walk Alone”.

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Tuttavia è nelle copertine dei libri della casa editrice Faber and Faber che l’Albertus trova una delle sue manifestazioni più iconiche. Wolpe collabora con loro per quasi 40 anni, progettando più di 1500 copertine. Alcune sono realizzate con lettering a fatti a mano, altre utilizzano caratteri come Pegasus, Fanfare e Tempest (tutti disegnati dallo stesso Wolpe), mentre molte, moltissime altre sono realizzate con l’Albertus. Questo permette al carattere di diventare un vero e proprio manifesto di stile britannico, riconoscibile ancora oggi. Donna Payne, attuale direttrice creativa di Faber, ricorda che quando fu assunta, l’Albertus aveva quasi il suo “ufficio personale” all’interno della casa editrice.

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Anche in ambito televisivo il carattere diventa un’icona cult. La serie fantapolitica “The Prisoner” utilizza una versione dell’Albertus non solo per i titoli, ma anche per le applicazioni stampate all’interno delle scene, come poster, segnaletica e packaging.

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Tra i registi cinematografici è invece John Carpenter ad innamorarsene, adottandolo come carattere per i titoli di film iconici, come “La Cosa” e “Fuga da Los Angeles”.

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Anche nella musica l’Albertus lascia la sua impronta, apparendo in molte cover di gruppi celebri come Coldplay, New Order, The Smiths e, più recentemente, Måneskin, che utilizzano una versione custom del carattere.

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Rimanendo in ambito musicale, l’Albertus viene utilizzato per la mostra “Davide Bowie is“, progettata da Jonathan Barnbrook e Jonathan Abbott per il V&A Museum. La scelta non è casuale. Abbott sottolinea come la natura del carattere, tra moderno e tradizionale, sans e serif, lo ponga in una “sdrucciolevole via di mezzo” creativa, che perfettamente rappresenta Bowie, la sua arte, il suo lavoro e il suo impatto culturale.

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I dualismi che riesce ad esprimere e le diverse anime che fanno parte della sua natura elevano l’Albertus ad uno status iconico, ma al tempo stesso alla portata di tutti.

Ne sono un esempio, in Italia, le confezioni delle popolari caramelle alla liquirizia “Pasticche del Re Sole”, dove il carattere campeggia affiancato dall’effige di Luigi XIV.

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Per celebrare questo capolavoro e altri caratteri di Berthold Wolpe, nel 2017 il type designer Toshi Omagari ha ridisegnato e digitalizzato per Monotype una serie di caratteri di Wolpe, tra cui l’Albertus, che rinasce in una nuova veste, l’Albertus Nova, con un ampio set di pesi e alternative stilistiche.

In particolare, riguardo questa nuova versione dell’Albertus, è da segnalare la presenza di diverse lettere alternative, riprese dalle incisioni originali di Wolpe e della “e” minuscola onciale presente nella serie televisiva “The Prisoner”. Un interessante easter egg che rimarca la sensibilità di Omagari nel tenere conto non solo della genesi storica del carattere, ma anche delle evoluzioni stilistiche che ha avuto nel tempo.

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Non è semplice trovare una risposta al perché questo carattere funzioni ancora così bene dopo tutti questi anni, rimanendo sempre iconico e rilevante. Una possibile spiegazione la fornisce sempre Jonathan Abbott: “Quando un carattere tipografico è di moda per un breve periodo, anni dopo può sembrare molto antiquato. Ma poiché Albertus è un carattere storico, in qualche modo trascende le tendenze, non essendo né dentro né fuori. Forse questo è un indizio della sua aura senza tempo.”

Una valida argomentazione, che trova ulteriore significato nelle parole dello stesso Wolpe:
La tipografia, dopo tutto, è solo un miscela esplosiva di leggibilità e buon senso”.

 

Davide MolinariSenior Visual Designer

Ci sono opere che vengono considerate intoccabili, ritenute icone stesse dell’arte a cui appartengono. Immaginiamo la Mona Lisa di Leonardo da Vinci o la Nona Sinfonia di Beethoven. Eppure, ogni tanto, c’è qualcuno che va controtendenza, criticando o addirittura irridendo quello che unanimemente viene considerato un capolavoro. Se in ambito pittorico ci aveva pensato Marcel Duchamp a disegnare i baffi alla Gioconda, sul versante tipografico è Erik Spiekermann a prendere le distanze dal carattere simbolo della tipografia moderna: l’Helvetica.

Succede a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Erik Spiekermann, designer e tipografo tedesco, sostiene che l’Helvetica sia noioso e insipido. Una vera eresia per i molti sostenitori del carattere svizzero, che tuttavia non fanno vacillare l’idea di Spiekermann. Il designer tedesco pensa sia giunta ora di cambiare qualcosa nel mondo della tipografia e decide di lavorare ad un carattere che sia, usando le sue stesse parole, la “completa antitesi dell’Helvetica”.

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L’occasione nasce per un lavoro commissionato dalla Deutsche Bundespost, l’ufficio postale della Germania Ovest, che nel 1985 chiede di realizzare un carattere proprietario. Il progetto è interessante, ma allo stesso tempo molto difficile. Il carattere dovrà essere estremamente leggibile e di facile applicazione, sia su supporti di grandi dimensioni, come i veicoli in movimento, che su spazi molto ridotti, come i francobolli. Oltretutto verrà potenzialmente stampato in maniera veloce su carte economiche, con irregolarità e scarsa resa dell’inchiostro.

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Spiekermann si mette al lavoro materializzando la sua visione tipografica: unire la grazia delle lettere calligrafiche alla funzionalità dei caratteri lineari. L’ottimizzazione dello spazio lo porta a ridurre al minimo le ascendenti e le discendenti, con un disegno delle lettere piuttosto compatto. Il carattere umanista progettato da Spiekermann, chiamato inizialmente PT55, permette di scrivere tanto testo in poco spazio, in maniera chiara, elegante e distintiva.

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A differenza dell’Helvetica, il PT 55 non lascia spazio ad ambiguità tra le lettere o i numeri. Emblematico è il caso di tre caratteri alfanumerici, “1Il” che spesso possono generare confusione. Le lettere e i numeri di Spiekermann, invece, mantengono una netta distinguibilità.

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Sfortunatamente il progetto non va in porto con la Deutsche Bundespost, ma Spiekermann è convinto delle potenzialità del suo carattere. Ci lavora ancora, in maniera autonoma, migliorandolo e ampliandolo, per includere più pesi e stili. Decide di chiamarlo Meta, prendendo spunto dal suo stesso studio, il MetaDesign. Nel 1991 il carattere viene rilasciato dalla neonata libreria FontFont con il nome completo FF Meta. Il successo è immediato e travalica i confini nazionali. 

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L’estetica pulita, allegra e distintiva, unita alla capacità di essere utile in svariati contesti, lo rendono uno dei caratteri più usati negli anni ’90. Da Herman Miller, azienda americana di arredo per l’ufficio a The Weather Channel, passando per Endemol, Mozilla, Imperial College London e Fort Wayne International Airport, solo per citare alcuni dei brand che nel corso degli anni adottano il Meta.

Lo stesso Spiekermann lo utilizza come carattere guida per il suo FontBook, una raccolta di tutti i principali caratteri in commercio, da molti considerato la Bibbia dei font

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La crescente popolarità spinge il suo autore a lavoraci ancora, ampliandone i pesi e sviluppando un set di caratteri che copre ben 110 lingue diverse. Questo permette al Meta Greek, la variante greca del Meta, di essere adottato nel 2010 come carattere ufficiale del governo greco.

Oggi il Meta fa parte di una super famiglia di caratteri, che include tra gli altri il Meta Serif, versione con le grazie del carattere originale. Anche in questo caso l’estrema leggibilità la fa da padrona, restituendo un carattere chiaro ed elegante, usato da CBA nella progettazione dell’identità visiva di Antonio Amato.

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Il successo del Meta contribuisce in maniera significativa alla celebrità di Spiekermann, ritenuto oggi una delle figure più autorevoli in campo tipografico. La sua creazione viene selezionata anche dal MOMA di New York, che lo inserisce tra i 23 caratteri più rappresentativi dell’era digitale. Eppure, nonostante i tanti riconoscimenti, l’appellativo più comune che viene attribuito al Meta è “l’Helvetica degli anni ’90”, un complimento che probabilmente non suona come tale, per il suo creatore.

Giuseppe MasciaCreative Director at CBA

Rinascimento, un’epoca di grande splendore artistico. Parliamo della fine del ‘400. Cristoforo Colombo scopre un nuovo continente sconosciuto e Leonardo Da Vinci, nel suo periodo Milanese, dipinge L’Ultima Cena. In questo contesto l’Italia rappresenta uno dei maggiori centri culturali dell’epoca e Venezia, in particolare, è il centro nevralgico della stampa di tutta Europa. A distanza di quasi mezzo secolo dall’invenzione di Gutenberg la carta stampata rappresenta l’industria emergente. Quello che ancora le manca è la bellezza estetica delle lettere calligrafiche scritte a mano, ed è qui che entra in gioco il Bembo.

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La sua storia trova luogo nella casa editrice di Aldo Manuzio, per molti il padre dell’editoria contemporanea. Presso la sua stamperia lavora uno dei più grandi incisori di lettere della storia (oggi lo chiameremmo type designer): Francesco Griffo da Bologna. Il grande risultato raggiunto da Griffo con le sue lettere stampate è proprio quello di aver vinto la “battaglia della bellezza” con quelle scritte a mano dagli amanuensi. Ed è proprio il Bembo a rappresentare il pinnacolo di questo suo lavoro.

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Nel 1495 Griffo incide le lettere romane tonde per la pubblicazione del De Aetna, un saggio in latino scritto dall’umanista Pietro Bembo, da cui il carattere prende il nome. Già in questa pubblicazione, le lettere del Bembo fanno scalpore, rendendo chiara l’evoluzione stilistica rispetto al carattere romano tondo che fino a quel momento aveva dettato legge in stampa: il romano di Jenson.

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Tuttavia è con il romanzo allegorico Hypnerotomachia Poliphili, che il Bembo raggiunge il suo massimo splendore. Qui Griffo migliora il rapporto larghezza/altezza delle lettere per renderlo più fedele ai tratti calligrafici dei maestri del tempo. In particolare, per imitare ancora meglio la vivacità della scrittura a mano, Griffo incide anche varianti delle stesse lettere, quelle che oggi vengono chiamate alternative stilistiche. L’opera è talmente elegante da essere considerata dagli esperti come una delle più belle pubblicazioni mai stampate.

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Tutto ciò è assolutamente rivoluzonario per l’epoca e fissa i parametri per l’estetica tipografica dei secoli a venire. È noto a tutti come Claude Garamond, padre dell’omonimo carattere, abbia “attinto” a piene mani dai punzioni di Griffo per realizzare il suo Garamond, come osserva anche Firmin Didot : «Con i suoi caratteri […] Garamond non ha fatto altro che copiare su diversi moduli il carattere di Francesco da Bologna; ed è stato lui a ricevere tutto l’onore […].»

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Nel 1929 il Bembo viene ridisegnato da Stanley Morison per la Monotype e da quel momento inizia un periodo di nuovo splendore per questo carattere.

Uno degli utilizzi più iconici è quello del progetto editoriale dei libri Penguin ad opera di Jan Tschichold, famoso per il formato tascabile, che a detta di molti è stato ispirato proprio dai lavori di Manuzio e Griffo poco più di 400 anni prima. Tschichold usa il Bembo per copertine e testi interni di diversi volumi, in particolare per le opere di Shakespeare.

 
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Nel corso del 900 il Bembo diventa il carattere associato alla cultura: viene utilizzato dalle University Press delle migliori università del mondo come Oxford, Cambrige e Yale, ma anche dalla National Gallery di Londra.

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In terra Inglese il carattere è così apprezzato che viene scelto anche per il wayfinding dell’Aeroporto di Heathrow, per il quale viene creata una versione ad hoc, chiamata BAA Sign (o BAA Bembo).

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In Italia è la casa automotive di lusso Maserati a fare sfoggio dell’intramontabile eleganza del Bembo, mentre ad Hollywood, in tempi recenti, viene scelto per la locandina del pluripremiato film The Theory Of Everything.

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Pensare che il Bembo venga usato solo in funzione della sua eleganza è tuttavia riduttivo: uno degli utilizzi recenti più interessanti è quello presente nel libro per bambini Bembo Zoo, dove il Bembo viene usato per creare illustrazioni di animali.

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Nonostante la grande notorietà del carattere, solo in tempi recenti si è riscoperta la figura del suo creatore, Francesco Griffo (per molto tempo chiamato Francesco da Bologna), attribuendogli il giusto merito. In tal senso è stato istituito il progetto multidisciplinare “Griffo la Grande Festa delle Lettere”, volta alla divulgazione della sua arte. Un personaggio unico che, citando le parole di Umberto Eco, “ha cambiato la storia dell’editoria”.


Davide Molinari
, Senior Visual Designer at CBA

Siamo alla fine degli anni ’50, più precisamente nel 1957. Il boom economico è al suo apice, la Russia si appresta a lanciare lo Sputnik, viene pubblicato il libro On the Road di Jack Kerouac e in Italia esordisce sul mercato automobilistico la Fiat 500. In questo clima di progresso e sviluppo, anche la tipografia è in uno dei suoi momenti d’oro. Fino ad allora la comunicazione visiva si esprimeva con le linee dell’Akzidenz-Grotesk, emblema dello Stile Tipografico Internazionale (o più comunemente Swiss Style). In quello stesso anno escono sul mercato tre pietre miliari della tipografia: l’Helvetica, il Folio e l’Univers, progettato da Adrian Frutiger, uno dei typeface designer più influenti e prolifici del XX secolo.

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Traendo ispirazione proprio dall’Akzidenz, Frutiger crea per la fonderia Deberny e Peignotl’Univers, una delle prime famiglie di caratteri con diversi pesi, larghezze e inclinazioni.

L’intento del lavoro è quello di creare un sistema unico che permetta ai designer di realizzare progetti grafici con un solo carattere, nelle sue varie declinazioni.

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Oltre ad essere un vero capolavoro in termini di disegno delle lettere, l’Univers introduce un sistema di classificazione e riconoscibilità rivoluzionario per l’epoca: il sistema di classificazione a due cifre.

Fino ad allora il sistema di nomenclatura dei font riportava oltre al nome anche il peso e la larghezza, il tutto nella lingua di origine del carattere. A titolo esemplificativo, in Germania un semi bold italic era chiamato “halbfett kursiv”, in Francia un bold era chiamato “gras”, in Italia “grassetto” o “neretto” e così via.Questo sistema generava (e genera tuttora) grandi fraintendimenti sull’identificazione di un font. Caso emblematico è la differenza tra “thin” o “ultra light” che non chiarisce immediatamente quale peso sia più sottile.

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Con l’introduzione dell’Univers, questo sistema di classificazione viene superato in favore di un approccio molto più semplice. Il sistema a due cifre consiste in un prefisso (il primo numero) che definisce il peso e in un suffisso (il secondo numero) che definisce la larghezza e l’orientamento (romano o corsivo).

Per esempio Univers 39 definisce il font di peso leggero (3) di larghezza ultra stretto (9), mentre Univers 83 indica il font di peso nerissimo (8) esteso (3). Con cifre pari nel suffisso si indicano le varianti oblique. Questo sistema è utilizzato ancora oggi nelle famiglie di caratteri che, come l’Univers, hanno molte declinazioni al loro interno.

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Con questo strumento i progetti grafici raggiungono quell’uniformità gerarchica, semplice e meravigliosa, consacrando l’Univers come una delle famiglie tipografiche più influenti della storia.

Lo stile svizzero tuttavia non è confinato solo in patria. Anche colossi come Deutsche Bank e General Electric hanno utilizzato per molti anni versioni modificate (ma sempre ben riconoscibili) del carattere per la loro identità visiva.

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L’Univers è anche il carattere utilizzato per le Olimpiadi del 1972 e del 1976. La comunicazione di Otl Aicher dell’edizione del 1972 di Monaco, in particolare, rappresenta uno dei progetti di comunicazione più importanti e meglio riusciti della storia del design, grazie anche all’eleganza e alla linearità della tipografia.

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Altri esempi di utilizzo per brand famosi comprendono le identità visive e loghi di Unicef, ebay e Audi.

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La stessa Apple, sempre molto attenta all’aspetto tipografico, ha adottato fino al 2007 uno stile dell’Univers per i pulsanti delle tastiere dei suoi computer, prima di passare al VAG Rounded prima e al San Francisco poi.

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Il fascino dell’Univers rimane intatto fino ad oggi, dove i caratteri grotteschi in particolare stanno vivendo un periodo di grazia, utilizzati in lungo e in largo dai designer di tutto il mondo.

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Tra la fine degli anni novanta e la prima decade del nuovo millennio, l’introduzione dei fogli di stile CSS (Cascading Styles Sheets) in informatica, segna l’inizio di una nuova era per i caratteri tipografici. Il linguaggio CSS ha infatti permesso di iniziare a plasmare liberamente l’aspetto delle pagine web, non limitando più i designer all’utilizzo dei cosiddetti “font web-safe”, ma permettendo loro grande libertà nello scegliere font personalizzati. Uno dei caratteri tipografici che più ne ha tratto vantaggio per la sua versatilità tra online e offline è stato sicuramente il Proxima Nova, definito da molti come l’Helvetica del web.

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Tuttavia la strada per la consacrazione dinanzi al tempio dei caratteri tipografici contemporanei più amati è stata lunga ed impervia. È il lontano 1981 quando Mark Simonson, padre del Proxima Nova, inizia a pensare ad un carattere tipografico nuovo, geometrico, essenziale schizzandolo su un pezzo di carta (e chiamandolo provvisoriamente Zanzibar) senza sapere che quello schizzo avrà bisogno di altri 9 lunghi anni prima di prendere forma.

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È infatti solo tra il 1990 e il 1993 che Simonson, allora Art director della rivista Business Ethics, dà vita al u0022Visigothicu0022, basandosi sullo schizzo del 1981 e sulla volontà di trovare un’alternativa più semplice e geometrica al carattere tipografico Gills Sans, che in quel momento stava utilizzando per l’impaginazione della rivista. Crea così un ibrido capace di unire i tratti moderni e uniformi dell’Helvetica a un aspetto più tecnico e geometrico del Futura e del Franklin Gothic.

La prima apparizione pubblica del Visigothic risale a fine 1993, stampato sopra la musicassetta di Star Wars – The Original Radio Drama disegnata da Simonson stesso. Nel 1994 cambia nome e viene rilasciato al pubblico come Proxima Sans. Inizialmente Simonson aveva grandi piani per questo progetto, ma a causa del cumularsi di altri impegni lavorativi, scelse di non dedicarci altro tempo, sviluppandone ahimè solo pochi pesi.

Ma agli inizi degli anni 2000, le cose iniziano a girare diversamente per il Proxima Sans. Nel 2002, Matthew Ball decide di utilizzarlo per il redesign della rivista Rolling Stone. Nello stesso anno Tobias Frere-Jones pubblica, su commissione della rivista GQ, un carattere geometrico ispirato a New York City chiamato Gotham. Il Gotham diviene rapidamente popolare, incrementando esponenzialmente la domanda di caratteri geometrici semplici e lineari. Cogliendone l’opportunità, Simonson ripubblica nel 2005 il Proxima Sans ribattezzandolo Proxima Nova. Il carattere tipografico viene perfezionato con molte più variazioni di peso e stili capaci di combinare un aspetto geometrico a proporzioni moderne. I sei caratteri originali del Proxima Sans (tre pesi in corsivo) diventano così 48 caratteri OpenType completi.

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Nel 2009 viene lanciato il servizio di font hosting Typekit e fin dall’inizio il Proxima Nova è uno dei primi font disponibili. Nel 2013, il Proxima Nova è diventato estremamente popolare, capace di inondare il mondo digitale grazie al suo essere incredibilmente versatile sia per la stampa che per le interfacce digitali.

Ad oggi è il carattere tipografico principale di alcune delle aziende più popolari nei media digitali, tra cui BuzzFeed, Flickr, Mashable, NBC News, Wired etc., e tra gli altri, è utilizzato nel logo della terza compagnia aerea migliore al mondo, la Turkish Airlines.

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Tuttavia, come succede per ogni grande carattere tipografico, il lungo lavoro di perfezionamento non è ancora terminato. Sono in arrivo nuovi pesi per la versione arrotondata Proxima Nova Soft, è stato da poco implementato un supporto linguistico aggiuntivo, tra cui vietnamita, cirillico e greco e pare sia in cantiere anche un possibile Proxima Nova Wide.

Stay tuned per la proxima realease!

Mark Simonson

Al giorno d’oggi siamo abituati a fare domande e conversare con i vari assistenti digitali: Siri, Alexa, Assistente Google. Ognuno ha il suo timbro di voce, con la sua personalità e le sue caratteristiche. Agli albori dell’intelligenza artificiale non era così. La “voce” di un assistente era legata in maniera imprescindibile alla forma delle lettere. Ne sa qualcosa Microsoft, che nel 1994 stava portando avanti un progetto per rendere più amichevole l’interfaccia utente di MS Bob, un sistema operativo alternativo che riproduceva il salotto di casa come spazio di lavoro. Non poteva mancare, in questa logica, l’assistente perfetto, il fedele cane Rover.

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È qui che inizia l’avventura del Comic Sans. Il simpatico cagnolino, infatti, “parlava” e dava i suoi suggerimenti attraverso il Times New Roman, carattere nato nel 1932 con tutti altri scopi. L’inadeguatezza espressiva del carattere colpì Vincent Connare, un Type Designer della Microsoft con un passato all’Agfa/Compugraphic. Sulla sua scrivania c’erano delle copie di Watchmen e Batman. Connare pensò subito che il tocco umano delle lettere dei fumetti fosse più giusto per un assistente dal look amichevole come il cane Rover. Si mise quindi al lavoro per realizzare un carattere che sarebbe passato alla storia, il Comic Sans.

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Sfortunatamente il carattere non venne usato in MS Bob, ma venne inserito come uno dei font di base del nascente Windows 95. Qualsiasi persona dotata di un PC di ultima generazione ora poteva utilizzare il Comic Sans. Il suo uso divenne massivo: dagli inviti per le feste di compleanno ai biglietti d’auguri, dai menù dei ristoranti ai manifesti fai da te. Buona parte di quello che usciva dalle stampanti domestiche era stampato in Comic Sans. L’aspetto infantile, divertente e naïf del carattere comunicava un senso di vicinanza che altri caratteri, per quanto prestigiosi, non potevano vantare. Divenne la scelta naturale per chi non voleva prendersi troppo sul serio, ma non solo, purtroppo. Il suo uso si trasformò in abuso e qui iniziarono i problemi. Documenti ufficiali, macchine della polizia, avvisi di pericolo di morte, lapidi cimiteriali. Il Comic Sans iniziò a comparire troppo spesso in contesti del tutto inappropriati, suscitando un’involontaria comicità che presto si trasformò in insofferenza, soprattutto nell’universo dei designer.

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Agli inizi degli anni duemila prese vita un movimento contro il carattere che sfociò nel sito (oggi non più attivo) bancomicsans.com, dove era possibile comprare T-shirt, cappellini e adesivi che bandivano il carattere. Gli ideatori, Holly e David Combs, pubblicarono anche una sorta di manifesto per spiegare il loro dissenso:

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Del font si occupò anche il Wall Street Journal, che nel 2009 lo definì così impopolare da risultare retro-chic. Design Week gli dedicò addirittura una copertina, inserendolo in un’ironico messaggio: “Qual è il font più amato?!”. La sua inadeguatezza a comunicare in maniera credibile è anche oggetto dell’ironico blog Comic Sans Project, dove vengono ridisegnate identità famose con il carattere incriminato.

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Nel corso degli anni l’uso improprio del carattere non è affatto cessato. Nel 2012, ad esempio, venne utilizzato dai ricercatori del CERN nella conferenza stampa che annunciava al mondo la scoperta del Bosone di Higgs, mentre nel 2014 alcune star dell’NBA hanno indossato una maglietta di protesta con il testo “I can’t breathe” in Comic Sans.

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Nonostante le tante critiche ricevute, il Comic Sans ha un grande merito, quello di mostrare in maniera evidente che ogni carattere ha una sua personalità, adatta a certi contesti e inadatta ad altri. Le motivazioni che spinsero Connare a disegnarlo erano del tutto nobili e, se fosse rimasto confinato nel territorio previsto, il Comic Sans avrebbe svolto in maniera egregia il suo compito, senza suscitare tanto clamore. Come dichiarò Connare stesso nel corso di un’intervista “Se si ama il Comic Sans, non si sa granché di tipografia. Se lo si odia, non si sa ugualmente granché di tipografia, e bisognerebbe trovarsi un altro hobby” a rimarcare che non è un carattere in sé ad essere giusto o sbagliato, ma l’utilizzo che se ne fa dello stesso.

Giuseppe Mascia, Visual Design Lead at CBA

Sono passati dieci anni da quando Kevin Systrom, cofondatore di Instagram, pubblicava la prima foto sulla sua piattaforma digitale e il mondo entrava in una nuova era, quella degli smartphone, degli influencer, dei meme. L’era dello streaming, dell’internet of things e della sharing economy.

Questi grandi cambiamenti hanno modificato non solo le abitudini quotidiane, ma hanno influenzato la cultura, le arti visive ed il design. La tipografia non è stata indifferente a questa evoluzione, tutt’altro. Gli anni ‘10 infatti sono stati portatori di grandi rivoluzioni per il type design, sempre più al centro del progetto grafico grazie ad una nuova e più matura consapevolezza tipografica.

Ritorno al rigore

Nei primi anni del nuovo decennio si è assistito ad un ritrovato interesse per il rigore geometrico, tendenza che aveva preso vita già qualche anno prima, con la diffusione di caratteri lineari come il Gotham, e che ha portato alla ribalta caratteri come l’Akkurat o il Circular, verso la metà del decennio.

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Si è sviluppata, parallelamente all’evoluzione tecnologica, una tipografia essenziale e minimalista, legata all’estetica digitale, che ha sostituito ogni vecchio ornamento, ritenuto superfluo se non problematico.

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Una delle principali cause di questo ritorno al minimalismo è stata dettata dal bisogno di maggiore leggibilità, necessaria in un mondo in cui la maggior parte dei contenuti sono fruiti sugli schermi di smartphone o di dispositivi ancora più piccoli. Ne sa qualcosa la Apple, che nel 2014 per l’Apple Watch ha lanciato il “San Francisco”, carattere divenuto poi lo standard per tutti i prodotti della casa di Cupertino.

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Questa tendenza al minimalismo è stata molto evidente anche nel mondo del branding, interessando in primis i colossi digital, ma non solo.

È stato infatti il decennio dei rebrand storici di grandi marchi come Google, che nel 2015 ha abbandonato lo storico carattere graziato del suo logotipo a favore di un carattere lineare geometrico, il “Product Sans”. La stessa logica è stata adottata da Facebook, Spotify, Airbnb, Motorola, Lenovo e successivamente da Dropbox, Mastercard, Pandora, Pinterest e Uber. Una ricerca dell’essenzialità che nella metà degli anni 10 ha raggiunto il momento di massima popolarità.

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Verso la fine del decennio il fenomeno si è esteso anche ai grandi brand del mondo della moda, che hanno adottato gradualmente versioni più neutrali e geometriche dei loro marchi storici, con alterne reazioni da parte del pubblico.

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La fase sperimentale

Parallelamente, a partire dalla seconda metà del decennio, si è assistito ad un forte interesse per forme tipografiche più sperimentali. Questa tendenza è stata resa possibile grazie all’introduzione di software user-friendly come “Glyphs”, che hanno consentito a sempre più designer di entrare nel mondo del type design, ed hanno contribuito all’aumento di popolarità della tipografia anche sui social. Basti pensare ad iniziative virali come “36 Days of Type” che nel corso di 6 anni ha raccolto più di 670.000 adesioni.

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La possibilità di accedere a strumenti prima relegati all’uso di pochi ha generato una sorta di rivoluzione che è andata al di là della pura provocazione in stile Neville Brody degli anni ‘90. La sperimentazione tipografica è diventata più matura, una vera e propria forma espressiva pienamente consapevole.

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Un punto di riferimento in tal senso è stato Mirko Borsche, designer sperimentale che è riuscito a portare a livello mainstream questa tendenza, collaborando con grandi brand di moda e sportswear.

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Il mondo accademico rappresenta da sempre un forte impulso in termini di sperimentazione. In tal senso, è sicuramente da citare l’Ecal, istituto svizzero con sede a Lousanne, che in questi anni ha spesso anticipato e lanciato nuovi trend nel mondo del type.

L’Italia vede nell’Isia di Urbino il suo centro di eccellenza. La scuola ha da sempre dato grande spazio alla ricerca e alla sperimentazione tipografica degli studenti ed ha raccolto questa nuova ondata creativa, tra gli altri, nel progetto New Wave.

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La sperimentazione ha interessato anche il redesign di caratteri storici classici. Non è un caso che nello scorso decennio si è visto un certo aumento di popolarità dei Didoni, i caratteri di ispirazione francese nati nel ‘700, reinterpretati in funzione delle nuove tecnologie.

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Tecnologia e nuove opportunità

Con lo sviluppo della tecnologia, gli anni ‘10 hanno introdotto anche un’altra grande opportunità: quella di visualizzare correttamente ogni carattere tipografico su piattaforma web, resa possibile dall’introduzione nel 2010 del formato WOFF (Web Open Font Format).

Prima di allora infatti la scelta tipografica per una pagina web era limitata ad una manciata di font “di sistema”, il che rendeva praticamente impossibile comunicare la propria identità online attraverso la tipografia.

Era in uso prevedere un carattere alternativo e “web safe” che si avvicinasse il più possibile al carattere utilizzato per la stampa, ma data la scarsa varietà disponibile non sempre il risultato era soddisfacente.

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Proprio a causa di questo motivo l’azienda svedese IKEA nel 2009 decise di abbandonare il Futura, dopo averlo usato per 50 anni, per passare al Verdana, uno dei pochi “web safe” dell’epoca ed avere maggiore coerenza di comunicazione tra gli strumenti online ed offline.

Peccato che appena un anno dopo la tecnologia sarebbe cambiata ed avrebbe reso possibile l’utilizzo del Futura anche online, il che avrebbe fatto risparmiare all’azienda grossi capitali investiti nel passaggio al nuovo carattere.

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Sulla scia della democratizzazione tipografica, una grossa innovazione è stata introdotta da Google, che dal 2010 ha lanciato il suo servizio “Google Fonts”, mettendo a disposizione degli utenti una vasta gamma di font professionali totalmente gratuita. I caratteri, oltre ad essere web-friendly, sono estremamente curati e rappresentano una preziosa risorsa non solo per i web-designer. Tra i più popolari della piattaforma troviamo il Roboto e l’Open Sans.

Adobe ha seguito lo stesso esempio, introducendo nel 2011 il servizio “Adobe Typekit” per tutti gli utenti della Creative Cloud, consentendo l’accesso ad una vasta libreria di caratteri compresa nell’abbonamento.

Questi servizi sono diventati negli anni molto popolari, dando un nuovo significato alla definizione stessa di “free font”. Se prima con questa espressione ci si riferiva a caratteri amatoriali, con pochi pesi e spesso dal limitato numero di glifi, oggi la definizione può indicare piuttosto caratteri molto validi ed accessibili a tutti senza compromessi.

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Questa democratizzazione tipografica ha però aumentato il bisogno di distintività, che unito ad una crescente sensibilità visiva anche tra i non addetti ai lavori, ha spinto sempre più aziende ad avere caratteri tipografici proprietari, i cosiddetti “Custom Fonts”. Oltre ad essere motivo di distinzione e prestigio, questa scelta rappresenta talvolta anche un grande vantaggio economico.

Un caso emblematico è quello di Netflix, che disegnando il proprio carattere ha risparmiato milioni di dollari di diritti di copyright. O come il “Cereal” il custom font di Airbnb realizzato da Dalton Maag nel 2018.

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Tornando alla tecnologia, c’è stato un altro evento importante che ha segnato gli anni ‘10, cambiando le regole del gioco nel mondo tipografico: l’introduzione nel 2016 delle Variable Fonts.

Una nuova tecnologia che ha esteso le possibilità dell’Open Type consentendo di avere in un singolo font file innumerevoli varianti di peso e forma che diventano “variabili” , cioè modificabili direttamente all’interno del programma. Non più grandi famiglie di caratteri, ma un unico file che le racchiude tutte e ne rispetta in ogni versione le caratteristiche e l’identità iniziale.

Attualmente ancora in fase di completa affermazione, questa tecnologia riesce a garantire la massima flessibilità di un carattere e al tempo stesso il massimo rendimento in termini di peso, fattore importante per il web.

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Si conclude un decennio intenso, in cui la tecnologia, soprattutto quella legata al web, è stata il filo conduttore dei grandi cambiamenti che hanno reso la buona tipografia sempre più apprezzata e centrale.

È probabile che nei prossimi anni la maggiore attenzione dei progettisti verso il design customer-centric unita allo sviluppo di nuove tecnologie, segneranno un punto di svolta nel rapporto di interazione tra utente e tipografia, migliorando sempre più l’esperienza di fruizione in relazione alla funzionalità.

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Quello che è certo è che entriamo nel nuovo decennio rinnovando un’idea che ci ha accompagnato negli anni: “Type matters!” ora più che mai.


Emilio La Mura, Visual Designer at CBA

Anche chi non è amante dei fumetti conosce Gotham City, la città immaginaria dove vengono ambientate le avventure di Batman. I disegnatori della DC Comics tuttavia non sono partiti da zero: Gotham City è la trasposizione in chiave fantastica di New York City. Anche senza citarlo esplicitamente, il legame tra la città dell’uomo pipistrello e la grande mela è molto forte.

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Sarà per questo motivo che il type designer Frere-Jones, allora socio di Hoefler, quando disegna il carattere tipografico Gotham sceglie di chiamarlo come la città dei fumetti. Come per Batman anche in questo caso New York è fonte di grande ispirazione.

La nascita del carattere avviene nel 2000, su commissione della rivista GQ, che vuole un carattere lineare, dalla struttura geometrica. Un carattere “maschile, nuovo e fresco” che dia autorevolezza e credibilità agli articoli pubblicati.

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Per catturare l’essenza della città, Tobias Frere Jones scatta migliaia di foto in giro per New York, concentrandosi in particolare sulle vecchie insegne della metà del XX secolo. Il type designer vuole cogliere lo spirito razionalista di quegli anni, riscontrabile anche nell’architettura e nell’urbanistica.

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L’ispirazione più forte gli viene data dall’insegna del Port Authority Bus Terminal, sulla Eighth Avenue, la cui semplicità viene così sintetizzata dallo stesso Frere-Jones: “Non sono lettere che disegnerebbe un tipografo, ma un ingegnere. Il fatto che siano nate fuori dall’ambiente della tipografia dà loro un sapore molto distintivo”.

Il carattere che ne viene fuori incarna in pieno la filosofia minimalista da cui trae ispirazione. Nelle sue 44 varianti di peso, oggi diventate 66, non c’è spazio per elementi frivoli o senza senso. Il Gotham è un carattere solido, concreto, funzionale, ma allo stesso tempo accessibile. La descrizione presente sul sito di Hoefler & Co è abbastanza chiara al riguardo: “Dalle lettere che lo hanno ispirato, il Gotham ha ereditato un tono onesto che è assertivo ma mai imponente, amichevole ma mai folle, fiducioso ma mai in disparte.”

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Tra la sue caratteristiche principali c’è la forma circolare di molte lettere e un’altezza della minuscola piuttosto marcata, con conseguenti ascendenti e discendenti ridotte al minimo.

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Pochi anni dopo la sua pubblicazione, quando i diritti di esclusiva per GQ decadono, viene utilizzato come carattere principale per l’identità della Freedom Tower, al World Trade Center, e per il National September 11 Memorial & Museum.

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Tuttavia è nel 2008 che conosce la sua vera fama: il candidato alla presidenza degli Stati Uniti, Barack Obama, lo sceglie come carattere ufficiale per la sua candidatura. “YES WE CAN”, “CHANGE”, “HOPE”, messaggi chiari e diretti, che trovano nel Gotham, con il suo look semplice ed incisivo, la soluzione naturale per essere rappresentati.

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Il “carattere di Obama” diventa popolare non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo. Viene scelto da Coca Cola, Netflix, Saturday Live Night, Turkish Airlines, DC Comics, Tribeca Film Festival solo per citarne alcuni.

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Anche in ambito cinematografico conosce una forte popolarità, campeggiando sulle locandine di numerosi blockbuster.

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Lo stesso Obama, 4 anni dopo la prima campagna, decide di servirsi ancora del Gotham, per le elezioni di medio termine del 2012. Questa volta però chiede di aggiungere delle grazie al “suo” carattere. Sono proprio Hoefler e Frere-Jones a commentare la richiesta con un pizzico di ironia:

“Can We Add Serifs to Gotham?
For the President of the United States?
Yes we can.

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Giuseppe Mascia, Creative Director at CBA